Ultimamente non si fa che parlare di fenomeni mediatici, e allora perché non tornare ai fondamentali? Quando parliamo di “fenomeni mediatici” parliamo di fenomeni che nascono, crescono e muoiono sui media, spesso urlati e pubblicizzati con eccessivo clamore, fino a sembrare parossistici e di valore universale, dove però quasi mai il “mito” corrisponde alla realtà. Così, quando spesso si sente dire che “tutta Italia ne parla”, tuttaitalia altro non è che sei salotti televisivi e una ventina di testate giornalistiche. Tutta qui l’Italia? Non sentite già mancarvi l’aria?
Spesso i “fenomeni mediatici” nascono per la volontà
di parlare d’altro, di rimuovere la realtà. Nella tv
italiana di oggi questa è ormai la norma: dalle Lecciso in su (o
in giù, fate voi). Di guerra, di tasse, di Meridione sempre
più demoralizzato, di povertà, dei leghisti che volevano
mettere una taglia sugli assassini dei padani e poi si è
scoperto che gli assassini erano vicini di casa, di processi e di
condannati per mafia e di prescritti per corruzione, di tutto il resto
è meglio che non se ne parli. Tanto c’è tutta una
tv in mani fidate, pronta a parlar d’altro. Altre volte i
“fenomeni mediatici” nascono per sensazionalismo, con
grandi botti e solenni allarmi sociali, per poi tornare
nell’oblio nel giro di una settimana, come lacrime nella pioggia:
così tutto ad un tratto si scopre che a Napoli si muore
ammazzati per camorra o per droga, in quartieri dove lo Stato non entra
e se entra viene preso a sassate dalla donne alle finestre, e
giù con dichiarazioni di politici ed esperti, finché non
ci si stufa, noi a parlar d’altro e quegli altri a morire un
po’ più in silenzio, fino al prossimo giro di giostra.
Altri ancora sono quei “fenomeni” che nascono per
obbedienza alle leggi dell’informazione, con le redazioni pigre e
sempre alla ricerca di qualche “tendenza” con cui riempire
le pagine, e altri disposti a offrirle magari con le migliori
intenzioni: tipo certe improbabili “notizie” basate su
sondaggi o ricerche sociologiche. Ma anche – diciamolo con
cautela – tipo il “fenomeno telestreet”.
Le telestreet, come è noto, sono piccole emittenti pirata che
trasmettono su porzioni di frequenze non occupate (i “coni
d’ombra”), in quartieri o piccoli paesi: una specie di
mediattivismo civico con rivendicazioni politiche. Orfeo Tv a Bologna
è stata la promotrice. TMO Gaeta del meridionalista Ciano (vedi
prima lezione sul numero di novembre) è una delle prime e delle
più attive. DiscoVolante di Senigallia, gestita da una
cooperativa di disabili, invece è stata chiusa dal ministero e
rischia il processo. Ce ne sono altre, ma quante? Qualcuno davvero
crede che duecentocinquanta tv di strada siano effettivamente attive in
Italia, tutte insieme, un’enorme potenzialità contro il
monopolio dell’etere? In realtà, le telestreet attive e
presenti sul territorio, con impegno e continuità, si possono
contare su due mani, o poco più. Una di queste si chiama
Insù Tv, e si trova a Napoli, quartiere Forcella.
Insù Tv è la prima telestreet partenopea, animata da
Sandro, esperto in grafica, e Raffaele, giovane medico, insieme a un
gruppo di ragazzi volontari. Se ne è occupato un interessante
articolo sul numero 48 di Avvenimenti. «Il nostro obiettivo
– dice Sandro – è quello di ridare voce al
quartiere, fare telegiornali per i bambini, fare servizi specifici sul
territorio e trasformare le persone comuni in opinion leader».
C’è anche un ragazzo che manda cartoni animati giapponesi,
un gruppo di videoartisti, e un programma in preparazione gestito da
immigrati. Quando si trasmette a corto raggio, in una realtà che
è la propria, presenza e feedback tra emittenti e riceventi
diventano fondamentali: «Abbiamo già tentato, ma è
comunque in fase di sperimentazione, di proporre delle interviste su
tematiche specifiche all'interno del quartiere per poi mischiarle nella
playlist con una serie di filmati, documentari o film sul tema per
verificare la settimana dopo se c'è stato un cambiamento
sensibile nell'opinione del quartiere». La Forcella di
Insù Tv è un impasto di realtà disperata e
imperterrita speranza: è la Forcella del boss Giuliano, del
traffico di droga e dei ragazzi allo sbando, ma è pure la
Forcella che non si arrende, del parroco don Luigi Merola, del comitato
di quartiere che si batte per aree verdi, asili e aggregazioni
giovanili. Quando Insù Tv uscì allo scoperto furono gli
stessi giorni in cui il quartiere fu scosso dalle pallottole che
uccisero, per errore nella lotta tra clan, la giovane Annalisa Durante.
«C’erano dirette televisive nazionali a tutte le ore del
giorno e delle notte. Ma, a differenza delle altre, le nostre
telecamere, comparse in quel periodo, sono rimaste anche dopo, quando i
media sono andati via». In quei giorni nacque il reportage
“Forcella non ride” (visibile qui:
https://www.ngvision.org/mediabase/308), con le reazioni e le speranze
del popolo di Forcella. «Siamo stati identificati come la tv che
non si era dimenticata della ragazza e del quartiere, e ne continuava a
parlare». La rivincita della marginalità come risorsa per
quelli di Insù Tv non si ferma alle porte di Napoli: arriva a
Bilbao, dove hanno aiutato un gruppo di giovani ad aprire la prima tv
di quartiere basca, o all’università di Nablus dove
collaborano per aprire una telestreet palestinese.
Quello di Insù Tv quindi è un esempio validissimo, dove
il loro talento (tutto meridionale) non è quello di perdersi in
proclami retorici oppure in tradizionalismi che riducono il mondo a
caricatura, bensì il talento di scovare la realtà dove la
realtà ha sempre due facce, tragedia e speranza. Le tv che
nascono al Sud (ma tante ne potrebbero nascere) portano addosso questa
impulsiva ambivalenza: prima di telestreet c’erano le losche tv
pirata dei vicoli, nel 2002 ci fu la storica esperienza di TeleFabbrica
degli operai in agitazione della Fiat di Termini Imerese, velocemente
chiusa dal Ministero, c’è il prete di periferia che ha
montato un ripetitore sul campanile, c’era TeleRobbinud di
Squillace “paese più democristiano d’Italia”,
e molte altre con le loro singolarità e le loro spezie.
Spesso sulla tv generalista (per tornare ai “fenomeni
mediatici” e cose del genere) ci viene spacciato per
“informazione” un servizio in cui si passa il microfono
“per strada”, “alla gente”. È una cosa
insopportabilmente demagogica, vista al Tg1 o su Canale5. Ma quando
questo accade nella tua stessa strada, su una tv che è di quella
strada, allora è diverso: è lì che le facce, gli
accenti, valgono più di mille statistiche e di cento reality
show. Paradossalmente, è lì che si svela la finzione di
tutto il resto che è toccato dalla solita tv, e che si rivela
invece il mediattivismo.
Così scrive Matteo Pasquinelli nel libro “Media Activism” (scaricabile liberamente dal sito https://rekombinant.org/media-activism/download.php?op=viewdownload&cid=1): “La comunicazione indipendente e il mediattivismo sono stati innescati da eventi come Seattle e Genova, sono stati spronati dall’emergenza monopolio, ma essenzialmente si sono sviluppati solo con la massiccia diffusione di tecnologie a basso costo, dei cosiddetti personal media e della rete…il mediattivista è una figura sociale, una nuova figura di operatore, militante, artista, cittadino impegnato a sperimentare, spesso nel proprio tessuto urbano, forme di autogestione della comunicazione”. Le telestreet possono essere in grado (ma molto c’è ancora da fare, e dal basso) di innescare una rottura, trasformare il mediattivismo in legame sociale, risposta di tante comunità globale ad un’informazione monopolizzata e indefinita allo stesso tempo, in grado di creare un immaginario alternativo, formare una massa critica, ribadire l’idea (fondamentale ma ormai in disuso) dell’etere come bene pubblico. La pratica telestreet può rivelarsi come il grimaldello che scardina l’impasto italiano fatto, da un lato, di controllo tecno-mediatico e, dall’altro, di arcaiche costruzioni identitarie.
C’è molto da riflettere, dunque, per chi voglia partire da
qui per trovare una nuova via alla sua politica “corsara”
ma consapevole. Anche i “nuovi briganti” aspiranti
all’etere devono guardarsi intorno per non apparire mummie di un
conflitto che continua ma ha cambiato dislocazione. Certo, si dice che
in altri Paesi – dove non esiste una concentrazione mediatica del
genere – non scoppino “fenomeni mediatici” con questa
frequenza. E che pure le telestreet siano regolamentate in maniera
diversa. Ma questo è il compito che ci spetta: lavorare in
piccolo, pensare in grande.
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