diretto da Antonio Pagano
ABBONAMENTI PER L'ANNO 2005
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ANTONIO PAGANO
La nostra Associazione, nell'intento di rafforzare i vincoli di fraternità tra tutti i Duosiciliani sparsi nel mondo, promuove un'azione culturale tesa al recupero della nostra memoria storica e al rafforzamento della nostra identità millenaria. Questa azione si è resa necessaria perché le nostre popolazioni stanno subendo da molti anni un gravissimo processo di sradicamento culturale, che per la maggior parte dipende proprio dal ceto colto del meridione italiano, molto spesso ostile ed educato dallo stesso Stato italiano sin dal 1860 al disprezzo della propria terra d'origine.
Per la verità alcuni intellettuali, a titolo personale, ed altre
associazioni svolgono anch'essi molti sforzi per perseguire gli stessi
obiettivi, ma essendo questi sforzi isolati e sporadici non sono
sufficienti a raggiungere il cuore della nostra gente. Una tra le tante
iniziative dell'Associazione è la pubblicazione del periodico
"Due Sicilie" che è nato proprio per poter dare la piú
ampia e costante diffusione dei fatti della nostra storia, soprattutto
recente, per consentire di comprendere l'origine dei nostri mali
attuali e di far nascere quella coscienza che è l'unica vera
forza per poter migliorare la nostra società continuamente
brutalizzata da un sistema ciecamente unidirezionale.
Il nostro sforzo è soprattutto rivolto ai Duosiciliani emigrati,
le prime vittime, per lo piú inconsapevoli, della subdola
colonizzazione dei nostri territori. È necessario, tuttavia, che
ognuno di noi si attivi per formare delle aggregazioni, altre
associazioni culturali simili a questa, lontane da ogni colorazione
politica, che moltiplichi i nostri sforzi per rendere fiera, dignitosa
e unita la nostra gente, che solo cosí potrà contrastare
quel degrado che ci viene imposto da valori che non ci appartengono.
Scriveteci per ogni necessaria informazione.
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L'invasione piemontese nel 1860 del pacifico Stato delle Due Sicilie fu
ben piú di una semplice sconfitta militare e si può
affermare che essa ha tanto inciso sulla nostra vita sociale ed
economica che ancora oggi viviamo nell'atmosfera creata da
quell'evento, dal quale sono nati tutti i nostri mali presenti.
Gli effetti di una sconfitta militare, infatti, per quanto terribili,
vengono col tempo annullati se il territorio e la popolazione non
vengono annessi a quelli del vincitore. Per le Due Sicilie, invece, a
causa della particolare posizione geografica, senza soluzione di
continuità territoriale con il resto della penisola italiana,
l'annessione ha prodotto effetti cosí devastanti che la
coscienza del popolo stesso è stata modificata.
La storia piú che millenaria del Sud, fatta da immense glorie e
da immani tragedie, prima dell'occupazione piemontese, era stata la
storia di popoli che non avevano mai perso, nel bene e nel male, la
propria identità nazionale. È stata, dunque, questa
perdita, causata dalla forzata unificazione con gli altri popoli della
penisola, che mai era stata subita prima di allora con le precedenti
invasioni, nemmeno sotto la lunghissima dominazione romana, il
piú grave danno inferto ai Popoli Duosiciliani.
Il Regno delle Due Sicilie proprio nel 1860 si stava trasformando in un
grande Stato. C'erano tutte le premesse, perché allora era una
tra le piú progredite nazioni d'Europa, ma la delittuosa opera
delle sette e la sanguinaria sete di conquista savoiarda ne distrussero
i beni e le tradizioni, compiendo un vero e proprio genocidio umano e
spirituale.
Come fu precisato da Lemkin, che definí per primo il concetto di
genocidio, esso "non significa necessariamente la distruzione immediata
di una nazione ... esso intende designare un piano coordinato di
differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della
vita dei gruppi nazionali ...
Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle
istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei
sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi
nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della
libertà, della salute, della dignità e persino delle vite
degli individui ... non a causa delle loro qualità individuali,
ma in quanto membri del gruppo nazionale".
Si dice, inoltre, che vi sono due metodi per cancellare
l'identità di un popolo: il primo è quello di distruggere
la sua memoria storica; il secondo è quello di sradicarlo dalla
propria terra per mischiarlo con altre etnie. Noi Duosiciliani abbiamo
subíto entrambi i metodi, ma fortunatamente, avendo alle spalle
una storia di quasi tremila anni, siamo rimasti almeno sempre fedeli
alle nostre tradizioni, anche se, proprio a causa della nostra negletta
classe dirigente, non siamo riusciti a superare le violenze cui siamo
continuamente sottoposti.
I gruppi di potere, che da allora ancora dominano su tutta la penisola
italiana, hanno volutamente mistificato con la menzogna del cosiddetto
"risorgimento" gli avvenimenti che causarono la perdita
dell'indipendenza dello Stato delle Due Sicilie, proprio con lo scopo
di giustificare quella che fu una vera e propria guerra d'aggressione e
per nascondere tutte le rapine e le nefandezze che furono commesse
contro di noi.
La politica espansionistica piemontese, infatti, aveva bisogno di
strumentalizzare ideali e sentimenti umani per nascondere le
aggressioni verso gli altri Stati Italiani e fu cosí che venne
inventato il "risorgimento", che è la piú vile menzogna
creata nella storia dell'umanità.
Ancora oggi tali menzogne, avallate ancora adesso da uno Stato che si
definisce "italiano", cioè di tutti i popoli della penisola,
sono insegnate ai nostri figli che sono costretti cosí a formare
la loro mente in un culto che, non solo non è il nostro, ma
è stato creato proprio contro di noi.
I nostri giovani, ormai da piú di tre generazioni, hanno
cosí creduto (e continuano a credere) al "destino nazionale
dell'unità d'Italia", tanto che si è generato in essi un
atteggiamento passivo e l'abitudine ad essere ingannate, diventando per
di piú incapaci di una vera e costruttiva autocritica.
Il Regno delle Due Sicilie, all'atto dell'invasione piemontese, nel
confronto con gli altri Stati europei era considerato per la sua
ricchezza e per la sua condizione sociale al terzo posto come
importanza dopo Inghilterra e Francia.
È stata un'enorme menzogna, diffusa ancora oggi, affermare che
lo Stato delle Due Sicilie era arretrato rispetto all'Italia
settentrionale. Questo non era possibile per una sola considerazione:
gli Stati preunitari e, per certi versi, ancora feudali del Nord, erano
troppo piccoli per dar vita ad uno sviluppo industriale consistente,
non solo perché non avevano capitali, ma anche perché non
avevano un mercato di dimensioni considerevoli come lo era quello del
Regno delle Due Sicilie, il quale, inoltre, disponeva di una notevole
flotta mercantile che gli permetteva di avere rapporti commerciali con
tutto il mondo.
In Piemonte, invece, il sistema sociale ed economico era ben povera
cosa. Vi erano solo alcune Casse di risparmio e le istituzioni
piú attive erano i Monti di Pietà. Insomma esistevano
solo delle piccole banche e banchieri privati, generalmente d'origine
straniera, che assicuravano il cambio delle monete al ridotto mercato
piemontese.
In Lombardia, addirittura, non c'era alcuna banca di emissione e le
attività commerciali riuscivano ad andare avanti solo
perché operava la banca austriaca. E tutto questo già da
solo dovrebbe rendere evidente che prima dell'invasione del Sud, al
nord non vi erano vere industrie, né vi poteva essere un grande
commercio, né che i suoi abitanti erano ricchi ed evoluti, come
afferma la storiografia ufficiale.
I primi ad avere una vera banca furono i genovesi con la Banca di
Genova, fondata per sconti, depositi e conti correnti da alcuni
commercianti. Questo avvenne soltanto nel 1844. Poi tre anni dopo
(cioè appena 13 anni prima dell'invasione) si costituí la
Banca di Torino, che nel 1849 si fuse con la Banca di Genova, dando
luogo alla Banca Nazionale degli Stati Sardi (ma di proprietà
privata).
L'interessato Cavour (che aveva, infatti, propri interessi in quella
banca) impose al parlamento savoiardo di affidare a tale istituzione
compiti di tesoreria dello Stato. Si ebbe, quindi, una banca privata
che emetteva e gestiva denaro dello Stato.
A quei tempi l'emissione di carta moneta veniva fatta solo dal
Piemonte, mentre al contrario il Banco delle Due Sicilie emetteva
monete d'oro e d'argento, e in piú, per velocizzare la
circolazione monetaria, fedi di credito e polizze notate, le quali
però corrispondevano ad altrettanta quantità di oro
depositato nel Banco (443 milioni di lire complessivamente).
La carta moneta del Piemonte aveva anch'essa una riserva d'oro (circa
20 milioni), ma il rapporto era che ogni tre lire di carta valevano una
lira d'oro. Il fatto è che, per le continue guerre che i
savoiardi facevano, quel simulacro di convertibilità in oro non
era mai rispettato, sicché ancor prima del 1861 la carta moneta
piemontese non rappresentava piú il suo valore nominale per
l'emissione incontrollata che se ne fece.
Avvenuta la conquista di tutta la penisola, la prima cosa che i
piemontesi fecero fu quella di impossessarsi di tutte le riserve di
denaro nelle banche degli Stati appena conquistati. La Banca Nazionale
degli Stati Sardi (privata) divenne, dopo qualche tempo, la Banca
d'Italia (sempre privata), cosí com'è ancora oggi. La
Banca D'Italia è, infatti, allo stato attuale, di
proprietà dell'ICCRI, Banca San Paolo - IMI, Banco di Sardegna,
Banca Nazionale del Lavoro, Monte dei Paschi di Siena, Mediobanca,
Banca di Roma, Unicredito.
A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al
Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di
Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete d'oro per
trasformarle in carta moneta secondo le leggi piemontesi imposte,
poiché in tal modo i Banchi avrebbero potuto emettere carta
moneta per un valore di 1200 milioni e sarebbero potuti diventare
padroni di tutto il mercato finanziario italiano.
Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre piano piano passò
nelle casse piemontesi. Tuttavia, nonostante tutto quell'oro
rastrellato al Sud, la nuova Banca d'Italia (sempre di proprietà
privata), risultò non avere parte di quell'oro nella sua
riserva.
Evidentemente quest'oro aveva preso altre vie, che per la maggior parte
erano quelle del finanziamento per la costituzione di imprese al nord
operato da banche, subito costituite per l'occasione, che erano socie
della Banca d'Italia: Credito mobiliare di Torino, Banco sconto e sete
di Torino, Cassa generale di Genova e Cassa di sconto di Torino.
Le sottrazioni illegali operate e l'emissione non controllata della
carta moneta ebbero come conseguenza che ne fu decretato già dal
1863 il corso forzoso, cioè la lira carta non poté
piú essere cambiata in oro. Oltre ai conseguenti danni per tutte
le popolazioni della penisola, da qui incominciò a nascere il
"Debito Pubblico": lo Stato, cioè, per finanziarsi iniziò
a chiedere carta moneta a una banca privata (qual è la Banca
d'Italia).
Lo Stato, quindi, a causa del "genio" di Cavour e soci, cedette da
allora la sua sovranità in campo monetario affidandola a dei
privati, che non ne hanno alcun titolo (la sovranità per sua
natura non è cedibile perché è del popolo e dello
Stato che lo rappresenta). Oltretutto da quando nel 1935 fu decretato
definitivamente che la lira non era piú ancorata all'oro,
cioè ad una riserva aurea a cui si riferiva la lira cartacea, si
ebbe che il valore della carta moneta derivò da allora
semplicemente e unicamente dalla convenzione di chi la usa e accetta
come mezzo di pagamento.
La carta moneta, in effetti, non ha alcun valore intrinseco e alla
Banca d'Italia (che è privata), a cui si dovrebbe pagare il
debito pubblico, non si deve dare nulla perché il denaro
è di proprietà del popolo non della Banca d'Italia. Ma
questa è l'Italia creata dai piemontesi: la negazione di ogni
diritto dei cittadini e, poiché, come si può facilmente
comprendere, la Banca d'Italia ha un immenso potere finanziario e
politico, qualsiasi governo si formi in questa Italia non avrà
mai alcun peso significativo nella vita pubblica.
Fu, dunque, l'avidità della borghesia lombardo-piemontese,
favorita da quella davvero cieca delle Due Sicilie, l'ispiratrice
sotterranea dell'impresa che le permise di acquisire capitali e un
nuovo territorio da sfruttare, nonché per appropriarsi del mare
che poteva cosí permettere il commercio con altre nazioni. Solo
con la conquista delle Due Sicilie fu possibile impostare "dopo" un
programma di riforme che permisero la nascita delle industrie e delle
infrastrutture nel Nord dell'Italia, con il denaro sottratto al Sud e
con il sacrificio di questo.
Il Regno delle Due Sicilie, inoltre, apportò all'unità
d'Italia strumenti di progresso tecnico, che furono in seguito
soffocati dalla politica industriale voluta dal Piemonte che
sfruttò, e continua tuttora a sfruttare, tutte le risorse dello
Stato a favore del "Triangolo industriale". Basti ricordare in
proposito che fino al 1870 la Calabria era considerata ad alta
concentrazione industriale, mentre oggi è una delle regioni
piú povere d'Europa.
Il Regno delle Due Sicilie era vissuto come uno Stato unitario per quasi otto secoli di storia e di feconda civiltà, mentre il nord della penisola italiana era sempre stato governato, per lo piú da stranieri, in modo feudale, diviso in tanti staterelli residui del medioevo. Un sovrano di uno staterello ancora feudale, che parlava francese, usurpò la corona del Re Francesco II, defraudandolo anche d'ogni suo bene privato, e s'impossessò di tutte le ricchezze dei popoli Duosiciliani, dividendo il suo potere con i "galantuomini" traditori meridionali, diventando appunto il "Re dei galantuomini", in altre parole il re dei traditori. Il genocidio, materiale e morale, compiuto dai piemontesi trasformò i ricchi territori Napolitani e Siciliani in una colonia da sfruttare, importandovi i germi della delinquenza statale e spezzando anche l'anima alla sua gente. Gente che fu usata come carne da cannone per le altre guerre coloniali dei Savoia, come mercato per i prodotti delle industrie del Nord, come serbatoio di voti per quei ciechi politici meridionali, spesso solo servi sciocchi delle lobby del cosiddetto "triangolo industriale".
Mai, nella loro storia, le Terre Napoletane e quelle Siciliane subirono
una cosí atroce invasione. Quante ricchezze, inoltre, furono
rapinate e distrutte insensatamente, che avrebbero potuto fare
veramente una grande Italia.
L'economia dell'Italia meridionale, poi, ebbe un crollo verticale non
solo perché, dopo l'unità, il suo centro propulsore
gravitò solo al Nord, che ne fu privilegiato, ma anche
perché la concezione dogmatica del liberoscambismo imposto dal
Piemonte, impedí in seguito di porvi dei ripari. Il colonialismo
piemontese divenne per il Sud una vera e propria tragedia, che dura
ancora ai nostri giorni e che solo il forte temperamento della gente
Napolitana e Siciliana ha impedito finora che divenisse un danno
sociale irreversibile.
Una pesante e vile cortina di silenzio è stata stesa fino ad
oggi sulle vere vicende della conquista del Regno delle Due Sicilie e
sui lunghissimi e tragici anni della resistenza meridionale contro gli
invasori piemontesi, facendo sparire ogni documentazione, per
nascondere e mistificare quegli avvenimenti. Molti scrittori, infatti,
descrissero la situazione dei Territori Napoletani e Siciliani "dopo"
che vi era stata la devastazione piemontese, attribuendo
all'amministrazione borbonica le pessime condizioni sociali ed
economiche in cui erano state ridotte le Due Sicilie.
Proprio quando la Germania iniziava la sua industrializzazione, la
borghesia dell'ex Regno delle Due Sicilie, diventato nel 1861 una
provincia del nuovo Stato unitario, si precludeva la via dello sviluppo
economico. I piemontesi, nuovi padroni dell'ex Reame, infatti, oberati
da un pesante passivo di bilancio, sottrassero alle Due Sicilie ogni
risorsa e ne vendettero persino le terre demaniali. Queste furono
comprate proprio dalla cieca borghesia "meridionale" (ormai non
piú "Napolitana" o "Siciliana"), convinta che solo con il
reddito agrario potesse finalmente affermare il suo predominio.
Concezione del tutto suicida che era già stata con lungimiranza
contrastata dall'accorta amministrazione dei Borbone, che avevano
intuito che con la sola agricoltura non vi poteva essere progresso. Fu
cosí, con l'unità d'Italia, che nacque il latifondismo al
Sud e che portò nell'arretratezza le nostre terre e una
disoccupazione endemica.
Fu, infatti, un tragico errore che trasferí circa 600 milioni di
lire di allora, quasi tutta la riserva liquida degli abitanti
duosiciliani, nelle casse del Piemonte, finanziando cosí quel
sistema capitalistico che ancora oggi opprime il Sud. In piú
spinse alla fame i contadini che non poterono piú usufruire
degli usi civici, per mezzo dei quali era consentito a tutti di avere
una sicura economia domestica.
Le masse contadine, degli operai e degli artigiani, piegate dalla
forza, ma non nel morale, non poterono trovare altro sbocco per
sopravvivere che nell'emigrazione, che fu favorita interessatamente
dagli invasori. Calabresi, Abruzzesi, Campani, Lucani, Pugliesi e
Siciliani dovettero partire per terre lontane, spesso non sapendo
nemmeno quale fosse la loro destinazione finale, verso un mondo del
tutto ignoto. In quelle terre lontane e ostili, tuttavia, sono riusciti
a far emergere le loro antiche virtò mediterranee, costruendo a
volte ricchezze straordinarie, con la loro Patria nel cuore e che i
figli dei figli oggi hanno quasi dimenticato, perché sono
diventati americani, canadesi, argentini, venezuelani, cileni o
australiani.
Anche in questa loro diaspora, circa 23 milioni di emigranti a
tutt'oggi, molto piú grande di quella tanto conosciuta degli
ebrei, sono stati sfruttati dai piemontesi, che utilizzarono i loro
risparmi, inviati dagli stessi emigrati per aiutare le loro famiglie
d'origine, risparmi che andarono a finanziare le nascenti industrie
delle aree lombarde, piemontesi e liguri.
Tali industrie poi, con la vendita dei loro prodotti al "Sud", vi hanno
ricavato altri guadagni, mentre l'ex Reame si andava impoverendo sempre
piú, perdendo via via anche i suoi figli migliori, i piú
intraprendenti, costretti ad emigrare in tutto il mondo.
Ben piú deleteria fu poi l'emigrazione che iniziò a
partire dalla seconda metà del 1950 che, depauperando il Sud di
quanto ancora restava dell'antica società, ha dissolto e
trasformato in quelli che sono rimasti, attraverso la scuola, i partiti
politici e i mezzi d'informazione, le tradizioni piú
caratteristiche e la propria identità, che si è andata
omologando ai nuovi comportamenti globalizzanti dei consumi.
La principale causa del crollo delle Due Sicilie va, senza dubbio,
inquadrata nel marciume generato dalla corruzione massonica. Esso era
dappertutto: nelle articolazioni statali, nell'esercito, nella
magistratura, nell'alto clero (fatta salva gran parte dell'episcopato),
nella corte del Re, vera tana di serpenti velenosi. Infatti, come ha
esattamente analizzato Eduardo Spagnuolo: "addebitare ai piemontesi le
colpe del nostro disastro è vero solo in parte e contrasta anche
con i documenti dell'epoca.
La responsabilità della perdita della nostra indipendenza e
della nostra rovina è per intero della classe dirigente
duosiciliana, che si fece corrompere in ogni senso. Non a caso le bande
guerrigliere piú motivate, come quella del generale Crocco e del
sergente Romano, si muovevano per colpire, innanzitutto, i
collaborazionisti e gli ascari delle guardie nazionali".
Dopo il 1860 non ci fu soltanto un popolo in lotta soltanto contro un
esercito aggressore, come nel 1799, ma una guerra civile tra gli strati
popolari e la minoranza collaborazionista, tutta proveniente dalle
classi alte. I piemontesi, come ha efficacemente indicato ancora
Eduardo Spagnuolo: "vinsero perché si erano precedentemente
assicurati, attraverso l'azione sovversiva della massoneria, l'adesione
dei "galantuomini" del Sud, i veri criminali briganti.
Se non avessero avuto questo consenso fondamentale, mai e poi mai si
sarebbero azzardati ad attaccarci. Se un popolo, infatti, insieme alla
sua classe dirigente (o almeno con una parte consistente di essa) ha
veramente voglia di resistere, non c'é repressione che tenga,
anche se la vittoria piemontese sul campo era stata ottenuta
soprattutto grazie ad una schiacciante superiorità di mezzi
materiali e ad un'ottima organizzazione bellica frutto dell'esperienza
delle varie guerre precedenti.
All'eliminazione della "classe dirigente borbonica" contribuí,
purtroppo, lo stesso Francesco II, che, nel concedere la costituzione,
corrispose esattamente al piano diabolico dei liberali. Con la
promulgazione della costituzione (che Ferdinando II aveva espressamente
raccomandato al figlio di non concedere) furono eliminati legalmente i
funzionari fedeli e soprattutto fu paralizzato il popolo attraverso il
disarmo legale della Guardia Urbana, milizia popolare in stragrande
maggioranza fedele al Re.
Nonostante lo sfaldamento del nostro esercito, la partita poteva ancora
essere vinta, o quanto meno si poteva veramente colpire con efficacia
l'aggressore piemontese, ma la concessione reale della costituzione
(nell'illusione di avere favorevoli i liberali, decisi, invece, a
svendere la propria terra allo straniero) chiuse i giochi ancora prima
di iniziare la partita. Attraverso di essa, infatti, quella parte della
borghesia traditrice, proprio in nome di Francesco II, si
impadroní di tutte le leve del potere, disarmando il popolo e
armando, attraverso la ricostituita Guardia Nazionale, i sostenitori
dei "galantuomini".
A quel punto, regnando ancora nominalmente Francesco II, la
magistratura, le autorità municipali e le forze di polizia
finirono saldamente in mano al nemico. Il popolo si ritrovò
completamente abbandonato e soprattutto senza possibilità di
comunicazione con la "classe dirigente borbonica" legalmente
allontanata da ogni carica istituzionale.
Contemporaneamente, primissima operazione delle "autorità", fu
quella di allontanare tutti i vescovi dalle loro diocesi, episcopato
che, essendo di nomina reale, poteva costituire una serissima e
autorevolissima opposizione. È da rilevare, inoltre, che la
resistenza non iniziò quando vennero i piemontesi, ma
cominciò proprio quando fu concessa la costituzione liberale,
che anche alcuni vescovi, specie delle Puglie, contrastarono
attivamente.
Se ben si osserva, da un punto di vista strettamente giuridico, i
primissimi moti popolari avevano infatti un carattere "antiborbonico",
poiché andavano contro la costituzione, in altre parole contro
un corpo di leggi del Regno delle Due Sicilie promulgate su espressa
volontà del legittimo Re Francesco II di Borbone. Il popolo, in
realtà, aveva compreso immediatamente tutta la malizia dei
liberali e si era mosso per contrastarla".
Le atrocità commesse dai piemontesi e dai suoi manutengoli,
particolarmente nel periodo del cosiddetto "brigantaggio", possono
sembrare mostruose e incredibili, ma in parte, nonostante siano ancora
coperte da segreto di Stato, sono documentate negli Atti Parlamentari,
in quello che resta delle relazioni della Commissione d'inchiesta sul
brigantaggio, nei vari carteggi parlamentari dell'epoca e nella varia
documentazione custodita negli Archivi di Stato dei capoluoghi dove si
svolsero i fatti.
L'opposizione armata, tuttavia, fu soltanto un aspetto della piú
vasta resistenza all'invasione piemontese, perché la resistenza
si sviluppò per anni in modo civile. Numerose furono le proteste
della magistratura e dei militari, le resistenze passive dei dipendenti
pubblici e i rifiuti della classe colta a partecipare alle cariche
pubbliche. Moltissime le manifestazioni di malcontento della
popolazione, soprattutto nell'astensione alla partecipazione ai
suffragi elettorali, e la diffusione ad ogni livello della stampa
legittimista clandestina contro l'occupazione piemontese.
Il fenomeno del brigantaggio è stato analizzato e spiegato con
varie tesi, volendo dimostrare da una parte che esso era una specie di
esercito sanfedista, sorretto dai reazionari borbonici, ma senza un
capo carismatico, come lo era stato il cardinale Fabrizio Ruffo nel
1799, dall'altra che esso era un fenomeno esclusivamente sociale dovuto
alle lotte contadine contro i cosiddetti "galantuomini", che avevano
usurpato le terre demaniali, sfociando poi nel crimine.
In realtà, se qualcosa di vero di queste due tesi può
essere considerata una componente di tutto l'insieme, risulta evidente
dai fatti che tutto un popolo ha lottato contro un esercito straniero
considerato invasore e contro i traditori collaborazionisti per
lunghissimi anni.
Questo stesso fatto dimostra, da solo, che il "brigantaggio" fu una
vera e propria guerra di resistenza, che, insieme al popolo "bascio",
combatterono militari del disciolto esercito duosiciliano, avvocati ed
impiegati, operai e studenti, sindaci e magistrati.
Altrimenti non sarebbe durato cosí a lungo, né si sarebbe
avuta cosí tanta violenza da una parte e dall'altra. Del resto,
senza fare alcuna analisi dei fatti, basta la semplice considerazione
che solo con la venuta dei piemontesi nacque il cosiddetto
"brigantaggio" e si ebbe una cosí grande emigrazione, fenomeni
che con i Borbone non esistevano.
Il Brigantaggio, fu determinato soprattutto dal contrasto fra due
mentalità, fra due differenti culture, ma soprattutto possiamo
definirla come la reazione di una nazione intera in difesa della sua
autonomia quasi millenaria.
Per la realtà storica di quei tempi risulta evidente, infatti,
che della cosiddetta "Unità d'Italia" non se n'era mai sentita
l'esigenza tra le restanti popolazioni della penisola italiana. L'idea
unitaria, infatti, non ebbe alcun sostegno popolare efficace e fu
soltanto un movimento di pochi, soprattutto "borghesi", cioè
legato soltanto a interessi materiali.
L' "ideale" del cosiddetto "risorgimento", propagandato dai settari,
era al piú un'esigenza dei territori del Nord dell'Italia, che,
oltre ad essere governati ancora in modo feudale, erano ancora occupati
da potenze straniere. Il colmo era poi dato dal Piemonte, governato dai
Savoia che erano francesi, e che, proprio loro, dicevano di voler
"liberare l'Italia dagli stranieri". In realtà ai Savoia non
interessava niente della libertà degli Italiani, a loro
interessava solo ingrandire i propri possedimenti, sfruttando per i
propri interessi gli stessi Italiani, che costrinsero con perversione a
combattere tra loro.
Che fosse una guerra di conquista, da parte dei Savoia, non v'é
alcun dubbio se solo si osserva il modo di governare dei nuovi
"padroni", che mirarono unicamente a saccheggiare tutte le ricchezze
del Reame, sostenuto dalla borghesia lombardo-piemontese, che in tal
modo, ancora oggi, può sfruttare a proprio favore la sua
posizione dominante, amministrando i territori conquistati come una
colonia.
Uno Stato unitario in Italia, ammesso che si dovesse fare, si poteva
costituire in un altro modo. Cattaneo già dal 1848 aveva
proposto un possibile federalismo. Cattaneo, infatti, sognava la
realizzazione di una Repubblica federale a metà tra Svizzera e
Stati Uniti, votata alla "unità nella diversità" e alla
tutela dell'identità dei vari popoli presenti nella penisola.
Nel 1859 il Governo delle Due Sicilie, con le dovute correzioni, aveva
proposto al governo piemontese una soluzione federale, ma ai piemontesi
non interessava per niente rendere unita l'Italia. Ai Savoia, con la
voragine del debito pubblico piemontese e con alle spalle un pauroso
debito contratto con Inghilterra e Francia, che avevano materialmente
spinto il Piemonte ad aggredire gli altri Stati preunitari, interessava
solo ingrandire i propri domini e rapinare il prospero e ricco regno
delle Due Sicilie.
I Popoli delle Due Sicilie, in tutta la loro lunghissima storia, non
hanno mai fatto una guerra d'aggressione contro altre genti. Hanno
dovuto, invece, sempre difendersi dalle aggressioni degli altri popoli,
che li hanno assaliti con le armi o con le menzogne. Ancora oggi dal
Nord dell'Italia, per una congenita ignoranza, alimentata continuamente
dalla propaganda risorgimentale avallata dallo stesso governo
"italiano", continuano ad aggredirci con violenze verbali, con luoghi
comuni sui "meridionali", con una subdola politica di colonizzazione
politica, economica e morale.
In questo sono aiutati dalla cieca classe dirigente meridionale, che,
allo scopo di conservare la loro posizione parassitaria, ha
fiancheggiato sempre tutti i governi che si sono avvicendati in Italia
dall'inizio dell'occupazione, governi che pur definendosi "italiani",
hanno sempre avuto cura dei soli interessi di quell'area nota come il
"triangolo industriale" (Piemonte, Liguria, Lombardia).
Giuseppe Marotta, nel suo libro "L'oro di Napoli", scrisse: " ... La
possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta; una remota
ereditaria, intelligente, superiore pazienza. Arrotoliamo i secoli, i
millenni, e forse ne troveremo l'origine nelle convulsioni del suolo,
negli sbuffi di mortifero vapore che erompevano improvvisi, nelle onde
che scavalcavano le colline, in tutti i pericoli che qui insidiavano la
vita umana; è l'oro di Napoli questa pazienza".
Ma la pazienza non è mai eterna.
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