partecipai
il 15 e 16 aprile al convegno di gran rilievo con la presenza di
studiosi italiani e stranieri sul nostro sud.
In allegato due delle relazioni, una di Franco
Chiarello dell'Università di Bari e l'altra di Paola De Vivo dell'Università di Napoli.
1. L’incontro di oggi nasce dalla necessità di sviluppare una riflessione su uno dei temi più cari alla sociologia italiana e da questa più sistematicamente studiati sia al nord che nel Mezzogiorno: lo sviluppo locale e le politiche per promuoverlo.
Questa esigenza è oggi più avvertita per il fatto
che, mentre esistono le condizioni per fare un bilancio delle politiche
per lo sviluppo locale realizzate negli anni scorsi e per delinearne le
prospettive, l’attenzione verso questo tema appare nettamente
sovrastata dal dibattito sul declino del nostro paese.
L’invito a discutere di questo tema non è del tutto
innocente, ma parte da un’idea precisa: quella che il Mezzogiorno
non riuscirà ad uscire dalle difficoltà economiche in cui
attualmente si trova senza la capacità di integrare i
tradizionali interventi settoriali e di regolazione con politiche di
sviluppo che partano dai territori e s’incentrino sulla
dimensione locale.
La necessità di una tale politica emerge dall’osservazione
che i processi di globalizzazione in atto non escludono, ma anzi
richiedono con forza forme di organizzazione economica il cui carattere
è sempre più relazionale e socialmente radicato.
Un’economia di questo tipo non può guadagnare spazi
competitivi nel contesto globale basandosi sulla compressione dei
costi, ma soltanto se si affida alla capacità di mobilitare
risorse endogene, costruendo al contempo contesti istituzionali e
producendo beni collettivi e una qualità sociale in grado di
valorizzarle.
Politiche adeguate per sostenere e qualificare lo sviluppo locale nel
Mezzogiorno appaiono indispensabili per diversi motivi:
a) anche in quest’area le attività
economiche sono in larghissima misura territorialmente radicate e si
addensano in sistemi produttivi locali;
b) la preponderanza di imprese di piccole e medie
dimensioni rende la qualità del contesto ambientale una risorsa
cruciale per la loro capacità competitiva;
c) la crescita di nuove attività
produttive specializzate e innovative richiede la costruzione di
efficaci reti locali tra soggetti pubblici e privati
(università, centri di ricerca, governi locali);
d) l’esistenza nel Mezzogiorno di imponenti
risorse naturali, culturali e storico-artistiche può essere
tutelata e valorizzata solo attraverso la mobilitazione degli attori
locali e la concertazione tra di essi.
Rispetto a queste realtà, gli interventi macroeconomici, le
politiche di regolazione o gli interventi settoriali a scala
meridionale sono certamente utili, ma non sono sufficienti se non si
conformano alle esigenze dei diversi territori e se non vengono
integrati in progetti territoriali coerenti e con capacità
locali di analisi delle situazioni, condivisione degli obiettivi,
concertazione dei progetti, progettazione degli interventi, attuazione
degli stessi, valutazione e verifica dei risultati.
A questo proposito, è bene peraltro rilevare che le politiche di
sviluppo locale non sono una questione localistica, da lasciare alle
scelte degli attori locali, ma rivendicano un forte impegno nazionale e
una esplicita e coerente politica economica
nazionale.
2. A questo livello, si può osservare che, dopo la lunga
stagione dell’Intervento straordinario non è emerso
compiutamente un diverso modello di politiche pubbliche per lo sviluppo
del Sud. Dalla fine dell’intervento straordinario (1992)
l’attenzione verso il Mezzogiorno ha subito profonde oscillazioni
da parte dei governi che si sono succeduti alla guida del Paese. Da
priorità dell’azione di governo, alla fine degli anni
Novanta, il Mezzogiorno è stato derubricato a riferimento
distratto e limitato alla rituale redazione del capitolo meridionale
dei Documenti di programmazione economico-finanziaria.
Nell’ultima finanziaria, la parola Mezzogiorno compare una sola
volta, al comma 219, quello che dispone uno specifico finanziamento per
l’Istituto Marotta di Napoli. Lo stesso accade per la parola
“meridionali”. Un esempio per dire che da grande
“questione nazionale” il Mezzogiorno è quasi del
tutto scomparso dalla nostra legislazione per essere diluito nella
più ampia – e vaga - vicenda del ridisegno delle
“aree depresse” o, come ora si dice,
“sottoutilizzate”. Anche il flusso di trasferimenti
pubblici verso il Mezzogiorno si è ridotto in misura consistente
e gran parte di questi sono destinati a cofinanziare la politica
regionale del Quadro Comunitario di Sostegno (QCS) 2000-2006 per le
aree dell’obiettivo 1 entro cui ricade gran parte delle regioni
meridionali.
Analoga oscillazione si è registrata nel tipo di interventi
proposti e messi in campo per favorire lo sviluppo delle aree
meridionali. Non si tratta tanto della classica oscillazione tra una
visione neoliberista, secondo la quale la migliore politica è
l’assenza di ogni intervento specifico, e una visione
neo-assistenziale, basata sul mantenimento di flussi di trasferimenti
pubblici volti a sostenere i livelli di reddito e di consumo
individuali. Si tratta piuttosto dell’oscillazione tra politiche
di incentivazione agli investimenti delle imprese (p.es., l.488/92 e
credito d’imposta) e politiche di “programmazione
negoziata” dirette a promuovere lo sviluppo locale attraverso
forme di governance basate su accordi formalizzati – normati o
volontari - tra soggetti pubblici e privati per la realizzazione di
interventi coordinati e integrati (patti territoriali, contratti
d’area e contratti di programma).
Le prime – di tipo automatico (come il credito d’imposta) o
di tipo valutativo (come la l. 488/92) – hanno come riferimento
esplicito le singole imprese e le convenienze localizzative dei singoli
imprenditori; le seconde spostano invece l’attenzione dalle
imprese ai contesti sociali in cui esse operano, dal capitale fisico al
capitale sociale.
Le prime sono sorrette da una visione prettamente economica dello
sviluppo territoriale, nella quale l’intervento pubblico è
volto ad assecondare le scelte individuali di mercato; le seconde si
fondano invece su una visione dello sviluppo economico come una
costruzione sociale collettiva, sostenuta ma non sostituita dalla
politica economica nazionale, nella quale assumono rilevanza diversi
tipi di capitale (fisico, umano, sociale, culturale e naturale) e
fattori non economici come lo spirito civico, la cooperazione, la
fiducia.
Le politiche di incentivazione e quelle di “governance
locale” possono prevedere tempi di realizzazione simili, ma i
metodi e i contenuti della valutazione differiscono
sensibilmente: questi ultimi, infatti, non possono limitarsi al
monitoraggio economico-finanziario di breve periodo, ma devono
considerare anche gli effetti degli investimenti in termini di
incremento del capitale sociale in una determinata area, che
normalmente sono molto più complessi e più diluiti nel
tempo.
Peraltro, i due tipi di politiche non sono necessariamente alternativi:
la contrapposizione tra politiche di incentivazione e politiche di
promozione dello sviluppo locale viene stemperata dalla considerazione
che i due tipi di interventi, pur avendo tempi di realizzazione in
parte diversi, possano convivere servendo l’identico
obiettivo dello sviluppo. Non è un caso che il documento sul
Mezzogiorno elaborato alla fine del 2004 dai sindacati e dalle
organizzazioni imprenditoriali suggeriscano un’integrazione tra
le due modalità d’intervento.
L’approccio di tipo concertativo tende a rimettere in discussione
anche la contrapposizione convenzionale tra sviluppo dall’alto e
sviluppo dal basso sulla base dell’assunto che le risorse esterne
ad un’area sono veramente utili se riescono a rafforzare
l’autonomia e la responsabilizzazione della politica e della
società locale.
Tuttavia, la distinzione tra i due tipi di politiche può essere
mantenuta e spiega, in ultima analisi, la preferenza degli economisti
ortodossi per il primo tipo di interventi e quella dei sociologi (e di
molti economisti di frontiera) per il secondo tipo. In estrema sintesi,
e forse con eccessivo schematismo, si può dire che i primi
ritengono che lo strumento della “programmazione negoziata”
finisca col diventare, al di là delle intenzioni dei proponenti,
il cavallo di Troia con cui si ricreano le condizioni per una pesante
intermediazione burocratica e politica, spesso ad alta valenza
clientelare. I secondi, invece, pur non sottovalutando il pericolo di
relazioni di tipo collusivo fra gli attori locali, ritengono che questo
strumento resti quello più valido per perseguire
l’obiettivo di uno sviluppo durevole e di qualità
poiché è in grado di alimentare la “democrazia
associativa”, favorendo l’emergere di classi dirigenti di
qualità, il rafforzamento e la responsabilità delle
istituzioni locali e la diffusione di culture e comportamenti sociali
di tipo cooperativo e fiduciario.
3. Spesso si rileva che esiste un contrasto fra i tempi mediamente non
brevi delle politiche di sviluppo locale e gli orizzonti di breve
periodo, per ragioni di consenso elettorale, delle classi dirigenti
politiche locali. Se a questo si aggiunge l’esiguità delle
risorse disponibili e la perdurante modesta qualità dei governi
e delle amministrazioni delle regioni meridionali e degli enti locali,
il passo è breve per giungere alla conclusione che sia
preferibile affidare le politiche di sviluppo a strumenti diversi da
quelli incentrati sulla concertazione tra i soggetti locali e che sia
auspicabile ritornare ad un assetto più centralizzato degli
interventi.
Uno di questi strumenti è costituito dagli interventi di
incentivazione alle singole imprese a cui si è accennato,
fondato su requisiti oggettivi e finanziamenti automatici che evitano
intermediazioni burocratiche e politiche.
Un’altra proposta è quella relativa alla costituzione di
un’agenzia indipendente a competenza sovraregionale (sul modello
delle regional development agencies britanniche), fornita di risorse
sufficienti, dotata di grande autonomia discrezionale e
“isolata” dal punto di vista operativo, in modo da
garantire la necessaria selettività dei progetti da sostenere e
rendersi libera da pressioni per interventi di tipo distributivo o
rivolti ad ottenere benefici unicamente occupazionali.
Infine, viene in questi giorni ventilata l’ipotesi di
ricentralizzare a Roma le politiche d’intervento per lo sviluppo
meridionale attraverso l’istituzione di un Ministero per il
Mezzogiorno (o qualcosa di simile) che dovrebbe rilanciare la politica
meridionalistica e compensare in tal modo, a livello istituzionale, la
cosiddetta devolution.
Altri, invece, pur non sottovalutando il problemi
dell’inefficienza dei governi e delle istituzioni pubbliche
locali e il pericolo di interazioni sociali collusive a scapito
dell’efficienza, continuano a sostenere la necessità della
concertazione tra i soggetti locali (governance orizzontale),
supportate da forme di governance verticale (multilivello), quale
veicolo essenziale delle politiche di sviluppo locale nel Mezzogiorno.
La validità di una simile opzione sta nel fatto che politiche di
sviluppo dall’alto, quali quelle derivanti dagli strumenti di
incentivazione o dalla formazione di agenzie sovraregionali, possono
anche ottenere buoni risultati sotto il profilo strettamente economico,
ma si rivelano fragili nella prospettiva dello sviluppo autosostenuto
perché non creano le condizioni per la crescita delle competenze
locali e della cooperazione fra gli attori territoriali. In sostanza,
perché abbandonano l’idea che lo sviluppo è una
costruzione sociale fortemente radicata in un contesto territoriale.
Credo che anche questo sia un tema che merita di essere posto alla
discussione in questo convegno.
4. Infine, un’ultima ipotesi di cui in questi giorni si parla
è quella di istituire un coordinamento delle regioni meridionali
con accenni, seppur ancora vaghi, all’idea di costruire una
macroregione meridionale per aumentare il peso del Sud nella politica
nazionale e per presentarsi nei luoghi istituzionali di confronto
(Conferenze Stato-Regioni) con accordi strategici e visioni condivise
su alcune grandi questioni che riguardano l’area meridionale,
anche in vista della preparazione del Quadro strategico nazionale per
il rinnovo della programmazione dei fondi europei per il periodo
2007-2013 nell’ambito del Quadro Comunitario di Sostegno.
Identificare problemi e interventi comuni a tutte le regioni del
Mezzogiorno pone il problema di chiedersi se, al di là delle
tante differenze interne, esiste anche una questione meridionale come
grande questione unitaria. Sembra di si, se si considera che in
quest’area la contemporanea carenza di concorrenza e la carenza e
la scarsa qualità dei servizi collettivi (istruzione, trasporti,
risorse idriche ed energetiche, raccolta dei rifiuti, sicurezza,...)
hanno nel Mezzogiorno un carattere sistemico e incidono negativamente
sullo sviluppo economico e sul benessere sociale di
quest’area. In altri termini, è possibile realizzare
grandi investimenti pubblici unificati e centrali per la produzione di
servizi collettivi, la cui carenza attraversa tutto il Mezzogiorno,
insieme con politiche territoriali differenziate per lo sviluppo
locale?
Queste sono soltanto alcune delle questioni che possono costituire
oggetto del confronto di oggi e di domani. Ovviamente, ce ne sono molte
altre, che lascio volentieri ai relatori e ai discussant di queste due
giornate di lavoro.
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