L'identità, specialmente quella collettiva, è oggi un concetto alquanto di moda. Da più parti se ne discute e il termine identità viene utilizzato nelle occasioni più svariate. E non a caso l'identità ha fatto il suo ingresso persino nell'ultima campagna elettorale, trovando difensori fino a ieri insospettabili.
Questo gran parlare di identità pone di fronte alla
necessità di chiarire il concetto stesso, che in effetti viene
utilizzato in maniera piuttosto equivoca. Quello dell'identità
collettiva è un problema, si dice a ragione, moderno. Non si era
mai sentito il bisogno di affrontarne la sua reale portata concettuale
perché, semplicemente, non ve ne era alcun bisogno. Una
comunità era tale in quanto conservava le sue radici
naturalmente . Il senso di appartenenza era innato: tutto contribuiva a
scandirlo. Scrivere oggi di identità collettive significa quindi
prendere atto di qualcosa che si è definitivamente perso?
È questo il rischio paralizzante che si corre a parlare di
identità, per chi lo fa difendendo la valenza positiva del
concetto. Descrivere un malato, se non addirittura un cadavere.
Volendo semplificare, si possono considerare due approcci al problema
delle identità collettive. Il primo è quello proprio del
pensiero dominante, pesantemente condizionato da quella che Alain de
Benoist ha felicemente definito “l'ideologia
dell'identico”. Partendo da ciò che accomuna gli uomini e
rifuggendo ciò che invece li differenzia, questo pensiero,
figlio della modernità, non concepisce l'identità che
come mera caricatura. Si tratta della rappresentazione di un pensiero
debole, incline soltanto a ciò che può essere
quantificabile o sistematizzabile, a ciò che è
razionalmente dimostrabile. E l'identità, invero, è
concetto poco scientifico.
L'identità collettiva, infatti, non si misura. Il sentimento di
appartenenza non è quantificabile. Il legame con le proprie
radici, la propria storia, il proprio ambiente presuppone un uomo
differenziato, lontano dal tipo umano oggetto delle scienza moderna e
irriducibile all'individuo razionale di stampo illuminista.
L'identità chiama in gioco pulsioni emozionali ed istintive, non
esclusivamente razionali, considerate sintomo di un mondo arretrato e,
quindi, pericoloso. Per questo chi riafferma la necessità di
difendere le identità collettive si trova spesso ad essere
accusato di razzismo, nazionalismo o fanatismo, o semplicemente di
essere favorevole al regresso del mondo. Evidentemente, molti di coloro
che si richiamano positivamente all'identità lo fanno in questo
stesso orizzonte dettato dalla modernità: per costoro
l'identità è sinonimo di chiusura e particolarismo, in
perfetta coerenza con la concezione tutta moderna che vede l'uomo quale
individuo isolato che si trova quasi costretto a rapportarsi agli
altri, e lo fa generalmente mediante un contratto. L'idea stessa di
nazione, che trova tra i fautori dell'identità ancora parecchi
ammiratori, è il frutto di questa concezione artificiale e
giacobina, che passa senza soluzione di continuità da un
individuo assoluto ad una collettività assoluta, che non conosce
corpi intermedi né differenze al proprio interno. La
mondializzazione può essere facilmente ricondotta al culmine di
questo processo, in cui l'appartenenza politica alla nazione è
superata a vantaggio dell'umanità, come aveva già intuito
Heidegger : “ Il nazionalismo non è superato dal puro
internazionalismo, ma solo allargato ed eretto a sistema”.
Di conseguenza, come accaduto in qualche recente caso, il discorso
sull'identità diviene mero luogo comune propagandistico, giocato
in vista di un tornaconto elettorale e riferito al problema più
urgente di questo inizio secolo, e cioè quello della sicurezza.
Ancora una volta il concetto di identità è legato,
hobbesaniamente, a quello di paura. Paradossalmente il richiamo
all'identità collettiva è fatto in nome di una visione
del mondo, fondata su un individuo che persegue esclusivamente il suo
utile particolaristico e che concepisce la sua libertà come mera
difesa, che contribuisce a distruggerla.
Vi è un approccio alternativo all'identità collettiva? La
risposta può essere affermativa, ed è ad appannaggio di
tutti coloro che fanno dell'identità uno dei concetti
fondamentali di un pensiero forte. Questo approccio non considera
l'identità da un punto di vista squisitamente razionalista ed
illuminista. Non vuole spiegare l'identità, o almeno non si
accontenta di questo. Questo pensiero concepisce l'individuo come un
essere radicato, che si rapporta continuamente agli altri ed
all'ambiente che lo circonda: individuo concreto e differenziato, fatto
di ragione ed istinto in equilibrio tra loro. Certo, un essere non
statico, ma dinamico: un individuo che ha il senso delle proprie radici
e che vive partecipando e contribuendo alla storia della propria
comunità. L'identità collettiva è il frutto del
riconoscimento di radici comuni che non devono essere scritte da
nessuna parte (si pensi al dibattito sulla Costituzione europea), ma
semplicemente esistono : nella terra che si abita, nel paesaggio che si
riconosce, nelle parole che ci si scambia, nei simboli che accomunano,
nella interiorità di ognuno. Ed è questa consapevolezza
della propria identità, della propria provenienza che permette
di rapportarsi a colui che è differente, rispettandolo e non
ritenendolo un pericolo oppure un essere da rendere identico.
È vero che l'identità è un concetto problematico,
ed è altrettanto esatto che quello all'identità è
un riferimento sempre più vago, perché sempre più
si riduce ciò che differenzia rispetto a ciò che omologa
i popoli. Ma oggi un pensiero forte e ribelle può costruirsi
sull'identità: criticando la concezione dominante del pensiero
unico e l'uomo che ne consegue, troppo spesso occupato non solo a
consumare merci, ma anche emozioni. Ma soprattutto restituendo
l'individuo alla sua dimensione concreta, quella locale. In questo
senso, l'identità si sceglie . Si riconosce , in se stesso e
negli altri. Pensare l'identità collettiva significa
riappropriarsi di una dimensione naturale, che è lì a
portata di mano. Riappropriarsi dei simboli, della terra, dei gesti.
Procurarsi gli strumenti per comprendere meglio una realtà che
ci sfugge, velocemente. Per legare il passato al futuro. La provenienza
alla meta. Non è necessario un pensiero che ci dica cos'è
precisamente l'identità. Ma occorrono uomini che decidano di
viverla , difenderla, costruirla.
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