Anno VllI, N. 42 -
Luglio-Agosto 2002 - Quaderni Padani
di Davide Zeminian
Preambolo
La parola federalismo deriva dal termine giuridico latino foedus, col quale si indicava un accordo, un patto oppure una convenzione. Nella Roma antica il termine foedus aequum designava un "Trattato" attraverso il quale una città, in assoluto stato di parità giuridica, rinunciava volontariamente ad una quota stabilita della sua sovranità, allo scopo di raggiungere un'intesa sulla base della quale veniva a formarsi una unione di tipo, appunto, federale.(1)
Nell'età moderna, però, il concetto di federalismo trovò la sua elaborazione filosofica e concettuale nella dottrina elaborata dal giurista germanico Johannes Althaus (1557-1638), latinizzato in Althusius, che, allo scopo di porre fine alla frantumazione territoriale in cui versava l'Europa di quel tempo, cercò di concepire, in modo pacifico, una sorta di Unione politica di tutti i popoli. Nella sua opera principale, Politica methodice digesta,(2) del 1603, Althusius propone la creazione di una "unione fraterna degli uomini", che trova nella famiglia e nel Comune la sua entità basilare. Nel 1579 nei Paesi Bassi, territorio in cui risiedette Althusius, si costituì la Repubblica delle Province Unite, che vide riconosciuta la sua autonomia soltanto nel 1648, in seguito alla pace di Westfalia, grazie alla quale anche la Confederazione Elvetica ottenne il suo riconoscimento formale. Il documento istituzionale su cui si basò la nuova Repubblica, ovvero il "Preambolo" dell'Unione di Utrecht, fu opera proprio di Althusius, e costituì un autentico patto federativo tra le diciassette Province dei Paesi Bassi.(3 )
Nello stesso periodo in Europa si affermavano le idee del francese Jean Bodin (1530-1596), che portò ad un mutamento del concetto di sovranità, in quanto sancì l'indivisibilità, la perpetuità e la non delegabilità della sovranità stessa. Le sue teorie diventarono successivamente i presupposti dello Stato Assolutista.(4)
Successivamente il giusnaturalista olandese Huig Van Groot (1583-1645), il cui nome italianizzato è Grozio, attraverso la sua opera più importante, De jure belli ac pacis,(5) del 1625, pose le basi su cui venne fondato il Diritto internazionale, sviluppando poi i numerosi aspetti federativi di cui era portatore. (6)
Il 4 luglio 1776 le tredici colonie americane dichiararono la loro indipendenza dalla Corona inglese, che la riconobbe solo nel 1783, dopo una lunga guerra che portò alla nascita degli Stati Uniti d'America. Nel 1791 il X emendamento alla Costituzione varata nel 1789, attribuiva al Governo centrale i poteri inerenti alla politica estera e a quella militare, mentre tutte le altre competenze erano riservate ai singoli Stati. Veniva così a costituirsi il primo Stato federale della storia.(7)
Nel 1795 il saggio di Immanuel Kant (1724-1804), Per la pace perpetua, disegnò un primo progetto di organizzazione confederale e uno dei principali meriti del pensiero federalista kantiano fu la teorizzazione di una limitazione sovranazionale dei poteri dello Stato, proprio nel periodo in cui Napoleone Bonaparte (1769-1821) stava organizzando lo Stato in modo giuridicamente completo, definito e accentrato.
"Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia?"
Sono queste le premesse con le quali, il 27 settembre 1796, si svolse a Milano, ormai sotto il controllo militare dei Francesi, il concorso nel cui ambito fu posto il quesito Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia? Anche se il concorso fu vinto da Melchiorre Gioia (1767-1829), abate piacentino di tendenze giacobine, che, nello scritto da lui presentato, propose una soluzione ispirata al modello francese, unitario e rigidamente centralista, non mancarono certo proposte di tipo confederale. Verso la fine del Settecento, infatti, alcuni intellettuali iniziarono a sostenere che un'alleanza di tipo confederale tra gli Stati italiani avrebbe dato al Paese un maggiore peso internazionale. Uno di questi fu Giovanni Antonio Ranza (1741-1801), che optava per un governo simile a quello statunitense, organizzato in undici Repubbliche confederate, le quali comprendevano anche i terri-tori dell'Istria, della Dalmazia, dei Grigioni e del Canton Ticino nonché la Corsica e Malta.(9)
Dopo la caduta di Napoleone, tra il 1814 e il 1815, e contemporaneamente ai lavori che il Congresso delle potenze vincitrici, radunate a Vienna, stava svolgendo, emersero in Italia numerose proposte per il futuro assetto del Paese, che vedevano la netta prevalenza di un assetto di tipo confederale. Queste posizioni erano appoggiate prevalentemente dai Lombardi, che chiedevano alle potenze europee la costituzione di un Regno dell'Alta Italia, caratterizzato da istituzioni liberali e rappresentative. Tra questi la figura di maggior rilievo fu il conte Federico Confalonieri (1785-1846), che proponeva l'assegnazione dell'Italia Settentrionale ad un principe che desse affidamento con riguardo al mantenimento dell'unità. (10)
Non mancarono però proposte confederali estese a tutto il Paese, come quella di Luigi Angeloni (1759-1842), di Frosinone, il quale sosteneva che un saldo vincolo confederale avrebbe dovuto unire l'Italia escludendo l'Austria e la Francia, provocando così un rafforzamento del re di Sardegna. Inoltre Angeloni, sostenendo che l'Austria si sarebbe dovuta espandere nei Balcani, anticipava di molti anni il concetto dell'inorientamento, ovvero dell'aspirazione verso oriente, degli Asburgo.(11)
Su posizioni più o meno simili vi fu anche il poeta Ugo Foscolo (1778-1827) secondo il quale la soluzione ideale era quella di ridurre l'Italia a quattro monarchie confederate: il Regno di Napoli, lo Stato pontificio, la Toscana e il Regno di Sardegna, con "costituzioni più o meno generose, secondo l'indole dei popoli".(12)
Nel decennio compreso tra l'intervento austriaco del 1821 nel Regno di Sardegna e in quello di Napoli e la rivoluzione parigina del 1830 riemersero i progetti di alleanza confederale tra gli Stati italiani. Uno dei principali esponenti di questa corrente fu il ginevrino Gian Pietro Vieusseux (1779-1863), il quale riteneva difficile che l'Italia riuscisse ad ottenere in breve tempo la condizione di nazione indipendente, e credeva invece possibile raggiungere una maggior consistenza politica attraverso una confederazione di nove Stati e una unificazione doganale, commerciale, postale e scolastica.(13)
Tra i letterati più celebri della generazione risorgimentale vi fu il dalmata Niccolò Tommaseo (1802-1874), figura attiva di patriota, il quale sosteneva che toccasse al popolo decidere tra mo-narchia o repubblica, orientando però il suo pensiero a favore dell'istituzione di una confederazio-ne.(14)
Il federalismo comunale di Carlo Cattaneo
In quegli stessi anni, però, si poteva assistere al superamento della diatriba tra confederazione e federazione. Attraverso le teorie di Carlo Cattaneo (1801-1869) prendeva corpo anche in Italia il Federalismo nella sua più teorica ed articolata concezione.
Confederazione e Federalismo non venivano più a rappresentare lo stesso concetto, ma due distinte forme istituzionali, dove il Federalismo era la tappa successiva alla Confederazione, e cioè la costituzione di un'alleanza tra nazioni che trovavano un comune accordo, non solo in materie quali pesi, misure e monete, e quindi sulla creazione di un mercato comune, ma anche su un'unica politica estera. Inoltre, per usare le parole di Ettore A. Albertoni, "La nazione [Cattaneo] la concepiva solo come federazione di città e come raccordo fra tante e diverse storie, culture e psicologie sociali. Ne conseguì che il suo federalismo - con le sue sempre più attuali motivazioni economico-sociali - fu di portata europea e internazionale e rappresentò una visione filosofica della società e degli individui in essa operanti prima che un assetto giu-ridico-costituzionale dello Stato."(24) Il pensiero politico di Carlo Cattaneo si rifaceva alla comparazione tra l'Italia e due paesi nei quali il federalismo costituiva l'assetto basilare dell'organizzazione dello Stato, ovvero la Confederazione Elvetica e gli Stati Uniti d'America.
Ma la cultura di Cattaneo, che parlava ben sei lingue(25), andò oltre la teoria politica e non va dimenticato il contributo offerto al dibattito sulla riforma delle carceri,(26) nonché la grande attenzione dedicata allo sviluppo delle ferrovie e alla battaglia a sostegno del traforo del San Got-tardo, la cosiddetta "via delle genti"(27) e, in generale, a tutte le nuove scienze, dall'antropologia, alla linguistica.
Cattaneo nacque a Milano e si laureò in Giurisprudenza nel 1824. Discepolo del grande giurista Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) fin dal 1820, ne raccolse l'eredità culturale quando questi, nel 1835, morì. Cattaneo fondò nel 1839 la rivista "Il Politecnico", che cessò le sue pubblicazioni nel 1844. Nel marzo del 1848 partecipò attivamente all'Insurrezione di Milano, ponendosi alla guida del Consiglio di guerra, insieme a Enrico Cernuschi (1821-1896). Col ritorno degli Austriaci fu costretto ad espatriare a Lugano, ove fu attivo come professore di Filosofia nel locale Liceo Cantonale.
Fino al 1848, però, il federalismo di Carlo Cattaneo rimase all'interno dell'Impero austriaco, in quanto il suo obiettivo era quello di applicare una riforma in senso, appunto, federale al grande Impero plurinazionale, allo scopo di creare un grande mercato composto da territori che godevano, in eguale misura, di ampie autonomie locali.
Nel corso del 1848, Cattaneo modificò il suo federalismo, passando a sostenere la secessione della Lombardia dall'Austria, ed il suo accorpa-mento, attraverso un patto di tipo federale e repubblicano, dapprima alle regioni padono-alpi-ne e poi al resto del Paese quando anche le regioni più arretrate fossero riuscite a raggiungere lo stesso sviluppo civile ed economico. Il fine ultimo del pensiero federalista di Carlo Cattaneo era quello di creare una progressiva alleanza tra Stati, piccoli, sovrani ed autonomi che, federandosi tra loro, avrebbero costituito gli Stati Uniti d'Europa.(28)
Cattaneo morì nella notte del 5 febbraio 1869, a Castagnola, nei pressi di Lugano, assistito, oltre che dalla moglie Anna Woodcock (1796-1869), anche da Agostino Bertani (1812-1886), dai coniugi Alberto Mario (1825-1883) e Jessie White (1832-1906) e da Giuseppe Mazzini.(29)
Le idee liberal-democratiche, repubblicane e federaliste, per le quali il Grande Lombardo si era battuto per tutta la vita, non trovarono alcuna applicazione pratica nella vita politica del neocostituito Regno d'Italia.
La creazione dello Stato italiano e l'omologazione centralista
Infatti, nel 1860, gli avvenimenti internazionali, uniti ad un'abile manovra diplomatica della Cancelleria sabauda, voluta dal conte Camillo Benso di Cavour (1810-1861), portarono, manu militari, alla nascita dello Stato italiano, grazie all'esercito sardo nel Centro-Nord, e a quello Garibaldino nel Meridione.
Dopo la proclamazione del Regno d'Italia, 17 marzo 1861, le posizioni federaliste del Catta-neo - ma anche quelle del Ferrari(30) e del Pisa-cane(31) - finirono con il trovarsi isolate in una ristretta opposizione. Si fecero però avanti, fin dai primi mesi di vita del nuovo Stato, alcune proposte volte ad attuare una forma di decentramento.(32)
In tale ambito, Luigi Carlo Farini (1812-1866) presentò, il 13 agosto 1860, alla Commissione straordinaria e temporanea presso il Consiglio di Stato, una sua Nota, nella quale avanzò una serie di proposte di tipo regionalista, e quindi a sostegno di una forma di decentramento.(33) Successivamente, il 28 novembre 1860, anche Marco Minghetti (1818-1886) presentò una sua proposta di riforma amministrativa, nella quale tentò di dare all'Italia un ordinamento regionalistico, cercando anche di presentare le regioni come un progetto temporaneo e di trapasso verso l'unità amministrativa, ma fu tutto inutile poiché tali progetti non vennero approvati.(34)
Infine, Bettino Ricasoli (1809-1880), inizialmente favorevole alla costituzione delle regioni, aveva compiuto una svolta in direzione centralista, essendo convinto che il sistema da lui precedentemente appoggiato avrebbe rappresentato la distruzione di ogni governo.(35)
In riferimento alle proposte del Farini e del Minghetti, Arcangelo Ghisleri (1855-1938) commentò nel seguente modo: "Chi esamini le due "Note" vi cercherà invano quel concetto di autonomie regionali, che per una fantastica ipotesi suole attribuirsi ai due citati ministri.”(36) Ma quando [...] voi cercate di spremere le conclusioni a cui quei bravi uomini erano venuti, dopo infinite oscillazioni, incertezze, contraddizioni e ponderazioni, voi trovate che essi lavorarono a organizzare la tutela e non la libertà, la dipendenza e non le autonomie."(37)
Così, nel marzo del 1865, vi fu l'unificazione amministrativa del Regno, attraverso l'estensione dello Statuto Albertino, imposto l'anno seguente (1866) anche al Veneto: era il trionfo del centralismo.(38)
Nel 1870 nacque una nuova formazione politica denominata Terzo Partito, ad opera di Angelo Bargoni e di Antonio Mordini. Esso puntava sulla riforma amministrativa proponendo un decentramento in grado di aumentare le autonomie locali. Inoltre, il 7 dicembre 1870, a Firenze, Stefano Jacini (1826-1891) e Gustavo Ponza di San Martino, organizzarono una riunione per discutere il loro progetto di riforma regionalista, il più importante e rilevante elaborato dalla classe politica liberale. Ad essa parteciparono anche esponenti della Sinistra e del Terzo Partito, mentre restarono assenti i rappresentanti della Destra, che ritennero tale iniziativa una pura manovra politica.(39)
Lo Stato si stabilizzò e le sue istituzioni si rinforzarono sulla base di una rigida centralizzazione amministrativa. Diminuirono anche le iniziative orientate ad ottenere una riforma in direzione di un semplice decentramento. Anche la cosiddetta rivoluzione parlamentare del 1876 non mutò di fatto la situazione.
Il federalismo restò disordinatamente relegato nel pensiero politico dei "discepoli" di Carlo Cattaneo.
"La scuola di Cattaneo"(40)
Il primo di questi, almeno in ordine di nascita, può essere considerato Gabriele Rosa (1812-1897), che nacque ad Iseo nel 1912. Nel 1833 venne arrestato per la sua affiliazione alla Giovine Italia, e restò in prigione per cinque anni, fino al 1838, tre dei quali li passò allo Spielberg. Rosa aveva allora 25 anni, ed era il più giovane dei detenuti italiani, uno dei quali era Federico Confalonieri, che divenne suo amico. Fu proprio in seguito a questa amicizia che Gabriele Rosa ebbe modo di conoscere, nel 1843, Carlo Cattaneo col quale nacque una proficua collaborazione intellettuale e politica.(41)
Il pensiero politico del Rosa subì così l'influsso del Grande lombardo. Federalista e repubblicano il Rosa negava l'esistenza di una nazione italiana, con una sua peculiarità etnica, ed avversava ogni tentativo di trovare per forza legami tra Roma antica e l'odierna Italia, proprio in questo egli si opponeva a qualsiasi principio di predestinazione e di superiorità sugli altri popoli.
Gabriele Rosa, inoltre, fu molto attento agli sviluppi del socialismo, e guardò con ammirazione, come lo stesso Filippo Turati (1857-1932), la socialdemocrazia tedesca. Fu comunque molto critico nei confronti del socialismo utopistico, e preferì il solidarismo all'egualitarismo e il federalismo allo statalismo. Oltretutto il Rosa non appoggiò la critica alla società capitalistica in quanto, essendo positivista, credeva nell'evoluzione della società in senso progressista, grazie alla libertà presente nelle istituzioni.
Tentò in tutti i modi di riconciliare il pensiero mazziniano con quello cattaneano, nella speranza di mantenere politicamente unite le varie correnti del repubblicanesimo, che si stava trasformando, proprio in quegli anni, da movimento a partito politico.(42)
Altrettanto importante risulta essere Alberto Mario, nato a Lendinara, località in provincia di Rovigo, nel 1825. A ventitré anni il Mario lasciò gli studi, all'Università di Padova, e partecipò ai moti insurrezionali del 1848, durante i quali ebbe modo di conoscere sia Mazzini che Garibaldi (1807-1882).
Il discutibile modo in cui la guerra fu condotta portò il Mario ad allontanarsi in modo drastico dalla causa di Casa Savoia, che pure inizialmente aveva tiepidamente abbracciato, e ad avvicinarsi alle posizioni repubblicane e insurrezionali del Mazzini.
Frequentando il pensatore genovese, Alberto Mario, conobbe Jessie White,(43) una corrispondente inglese del Daily News, poi divenuta sua moglie nel 1857.
Dopo aver partecipato alla Spedizione dei Mille al fianco di Garibaldi, Mario convinse Carlo Cattaneo, al quale lo legava ormai una certa simpatia, a recarsi, nel settembre del 1860 a Napoli, dove Cattaneo si fermò solo un mese per il dissenso che egli provava in presenza degli intrighi filosabaudi che animavano la Città parte-nopea.
Tra il 1862 e il 1864 Mario abbandonò definitivamente il concetto mazziniano dell'unità a tutti i costi, e si schierò a favore della propaganda federalista, mettendosi a divulgare le idee di Carlo Cattaneo in tal senso.(44)
Alberto Mario prese inizialmente le distanze in modo energico dal nascente socialismo, anche se, successivamente, ebbe modo di ammorbidire le sue posizioni.
Un altro grande esponente della scuola di Cattaneo fu Mauro Macchi (1818-1880). Fondatore nel 1859 del quotidiano "La Libertà", fu segretario del Ministero della Guerra durante le insurrezioni che ci furono, in quello stesso anno, nei ducati di Modena e Parma.
Anche Macchi tendeva a ridurre al minimo il dissenso tra Cattaneo e Mazzini, definendolo un "malinteso"(45) e sosteneva un programma di diffusione di idee e di educazione. Fu un convinto sostenitore della separazione tra l'istruzione pubblica e quella religiosa, affermando che era necessario non insegnare la religione nelle scuole pubbliche, ritenendo però indispensabile che anche lo Stato non intervenisse nelle scuole religiose e nelle materie riguardanti, più in generale, la Chiesa, anche per evitare che questa potesse trovare il pretesto per osteggiare lo Stato medesimo.
Macchi aveva, senz'ombra di dubbio, scritto pagine importanti nella storia dell'anticlericalismo italiano.
Fu eletto deputato dell'Estrema Sinistra radicale e fece parte del gruppo dirigente liberal-democratico delle società operaie di mutuo soccorso, nella corrente repubblicana e federalista.(46)
"Arcangelo Ghisleri e il ritorno di Cattaneo"(47)
Nato a Persico, nei pressi di Cremona, nel 1855, Arcangelo Ghisleri fu un personaggio di grande levatura morale e culturale. Era simultaneamente legato a tutti e tre i seguaci del Cattaneo poc'anzi citati, che collaborarono, in modo diverso, alle numerose riviste che il Ghisleri fondò(48) ma, con la morte di Gabriele Rosa, avvenuta nel 1897, si spegneva l'ultimo rappresentante della generazione che aveva conosciuto di persona il grande Lombardo.
L'importanza dell'opera del Ghisleri consiste proprio nell'aver rappresentato la continuazione del pensiero di Carlo Cattaneo che proprio nel momento in cui sembrava destinato a cadere irrimediabilmente nell'oblio, venne divulgato, non solo tra i suoi contemporanei, ma anche tra una nutrita ed agguerrita schiera di giovani discepoli destinati a tramandare l'opera ghisleriana alle generazioni del secondo dopoguerra.(49)
Arcangelo Ghisleri sintetizzò nell'ambito del suo pensiero quello di Carlo Cattaneo e di Giuseppe Mazzini, sviluppando le discipline in cui quei suoi due Maestri eccellevano: il federalismo che Cattaneo aveva affrontato in modo approfondito ed organico, mentre Mazzini aveva timidamente delineato, in modo approssimativo, e la questione sociale divenuta, soprattutto dopo la nascita del Regno d'Italia, l'argomento principalmente trattato dal Mazzini, forte delle dirette esperienze avute in Francia e in Inghilterra nel corso del suo lungo esilio, ed invece affrontata in modo più teorico dal Cattaneo, che comunque non la sottovalutò.
La conferma di tutto questo ci arriva proprio da Arcangelo Ghisleri, in un articolo pubblicato il 30 settembre 1901 ne "L'Italia del Popolo", e poi raccolto nell'opuscolo di scritti ghisleriani La questione economica e il Partito Repubblicano. Ghisleri vi afferma che il migliore esempio di realizzazione della sovranità popolare è dato dalla repubblica federativa, basata sul suffragio universale, sulla rappresentanza proporzionale e sulla possibilità di manifestare la volontà della maggioranza attraverso i referendum, e quindi riassume il tutto nella formula Padronanza popolare e libertà. Precisa il Ghisleri che "la libertà di parola, di associazione, di riunione, di coalizione, di pacifico conflitto di tutti gli interessi" costituisce l'insieme di condizioni sufficienti a rendere possibili tutte le riforme, e la sovranità popolare diventa così il mezzo per attuarle. Alla sovranità popolare è legata la possibilità di far valere civilmente qual-siasi riforma ritenuta opportuna dalla coscienza popolare. (50)
Una grande dichiarazione di fedeltà agli ideali federalisti la possiamo trovare nella sua "Conclusione" dello scritto dedicato alla questione meridionale(51), dove Arcangelo Ghisleri scriveva: "La federazione è per me un principio, che riman vero, [...]. Fortunate le società che lo intesero e lo attuarono; disgraziate e da compiangere le nazioni che lo ignorano, o che per cieco ossequio a secolari pregiudizi o consuetudini, persèverano proterve nell'opposto sistema".
Enclave federalista al Sud e autonomisti al Nord
Un esempio eclatante dell'influsso che il Ghisleri ebbe sui suoi contemporanei è rappresentato da Gaetano Salvemini (1873-1957). Nato a Molfetta, in provincia di Bari, compie i suoi studi a Firenze.
Repubblicano, democratico e antimonarchico, era iscritto fin da giovane al P.S.I., che lasciò nel 1911, in seguito alla guerra di Libia. Successivamente fondò la rivista "L'Unità". Nel 1899, mentre risiedeva a Lodi, dove insegnava presso il Liceo classico, ebbe modo di conoscere le opere del Cattaneo e divenne federalista. Per approfondire la conoscenza del Grande Lombardo, Salvemini si rivolse al Ghisleri; ne nacque un proficuo sodalizio. Non aderì al fascismo e fu uno dei dodici docenti universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al regime. Per questo dovette dimettersi e rifugiarsi a Boston, negli Stati Uniti d'America, dai quali fece ritorno solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Morì nel 1957.(52)
Oltre al Ghisleri, vi fu un altro personaggio che esercitò una notevole influenza sull'adesione ai principi federalisti di Gaetano Salvemini e fu Napoleone Colajanni (1847-1921). Nato a Castrogiovanni, oggi Enna, il Colajanni diede un notevole impulso allo sviluppo della sociologia in Italia e alla nascita della criminologia, ma scrisse anche pagine molto importanti nella storia del repubblicanesimo e del socialismo in Italia. Si trattava però di un socialismo evoluzionista, che mirava al miglioramento della qualità della vita delle masse popolari attraverso una serie di graduali riforme, ma che era ostile all'egualitarismo marxista, di stampo collettivista e rivoluzionario.
Già nel 1878 - anno in cui cominciò la sua collaborazione con la ghisleriana "Rivista Repubblicana", e anno in cui venne pubblicato il saggio La questione sociale e la libertà - il socialismo del Colajanni assume toni federalisti, che furono successivamente approfonditi nel 1882, nelle Istituzioni municipali, scritto nel quale venne ribadita la concezione del Comune, visto come istituzione basilare dello stato democratico. Napoleone Colajanni fu una delle anime principali del movimento dei Fasci siciliani che, in seguito, abbandonò, a causa dei contrasti nati col P.S.I. poiché, come ha spiegato Salvatore M. Ganci, "il torto maggiore del socialismo nazionale fu quello di aver saputo soltanto consigliare la meccanica applicazione di uno schema politico "ufficiale" alla realtà siciliana, che era sostanzialmente diversa da quella padana. La rottura del Colajanni col movimento dei Fasci ne fu la logica quanto deleteria conseguenza".(53)
Ispirato al pensiero di Giuseppe Ferrari era invece Giovanni Bovio (1841-1903). Nato a Trani, in provincia di Bari, filosofo e giurista, il Bovio fu positivista e politicamente schierato nelle fila repubblicane. Il suo motto "o definirsi o sparire" fu un invito ai repubblicani ad abbandonare le posizioni confuse nelle quali confluivano numerose correnti, per costituirsi in partito politico.
Era quindi contrario all'astensionismo parlamentare, condiviso in quegli anni da numerosi esponenti del repubblicanesimo. Bovio era federalista, si, ma il suo riferimento dottrinario era rappresentato dalle teorie federal-socialiste di Giuseppe Ferrari.(54)
Nel 1887 fu coinvolto in una polemica con Arcangelo Ghisleri, che non condivideva le posizioni colonialiste del Bovio, il quale a sua volta sosteneva l'intervento militare in Africa in nome di una battaglia per la civiltà, poiché non poteva esistere un "diritto alla barbarie" e all'ignoranza.
Controbatteva il Ghisleri affermando l'inesistenza di una razza superiore ma semplicemente di civiltà più o meno evolute, e ricordava che non vi era bisogno di andare in Africa per incontrare società arretrate, poiché queste erano ancora massicciamente presenti in vaste zone del Regno d'Italia.(55)
Sia il Colajanni che il Bovio sostenevano che la classe dei grandi capitalisti del Nord stava basando i suoi massimi profitti sullo sfruttamento delle popolazioni del Meridione.
Più equilibrata la posizione di Gaetano Salvemini, che individuava nell'alleanza tra i capitalisti settentrionali e i grandi latifondisti meridionali, il fulcro dello sfruttamento effettuato ai danni delle popolazioni del Nord e del Sud. Comune denominatore dei personaggi appena citati era il pensiero meridionalista, che si orientava verso una pratica di autogoverno e di autonomie locali.
Ma Bovio, Colajanni e Salvemini non erano altro che un'enclave federalista nell'Italia del Sud, poiché la maggioranza degli intellettuali meridionali era orientata su posizioni centraliste.
Prevalentemente federalisti erano invece i democratici del Nord - salvo qualche rara eccezione come nei casi di Brusco Omnis (1832-1888) e Federico Campanella - che si raccoglievano intorno egli "eredi politici" del Cattaneo.
Oltre ai già citati Rosa, Mario, Macchi e Ghi-sleri, credo che sia doveroso soffermarci su un personaggio del calibro di Dario Papa (1846-1897). Nato a Rovereto nel 1846, sostenitore delle posizioni monarchiche e volontario garibaldino nel 1866, Papa iniziò la sua carriera giornalistica in quello stesso anno, collaboran-do con la rivista "Sole". Dopo alcune esperienze approda come redattore capo al "Corriere della Sera". In quegli anni ebbe modo di scontrarsi con Alberto Mario sui temi del federalismo americano ma, essendosi reso conto di non avere validi argomenti da contrapporre, decide di visitare quel lontano Paese. Fu così che attraversò gli Stati Uniti da costa a costa, trattenendosi due anni.
In un primo momento non sembrò positivamente colpito da quell'esperienza, ma al suo rientro fondò il giornale "L'Italia", che nel programma non accennava ad alcuna forma di governo. Queste posizioni furono corrette nel 1890, quando il 7 giugno iniziò le sue pubblicazioni "L'Italia del Popolo" che si presentava con poche parole: "Il giornale sarà repubblicano-federalista. Tutto il programma sta qui". Fin dai primi numeri Dario Papa non volle rinunciare alla collaborazione di un personaggio del calibro di Arcangelo Ghisleri, che di quel giornale divenne direttore nel 1901, dopo la morte del Papa (e dopo una breve parentesi di Gustavo Chiesi e Paolo Taroni).(56)
"L'Italia del Popolo" fu un punto di riferimento per la lotta al Governo centrale, che assunse toni estremamente accesi negli anni in cui alla guida dello Stato vi era Francesco Crispi (1818-1901), in modo particolare tra il 1894 e il 1896, quando la protesta condotta dalla coalizione delle forze democratiche milanesi arrivò ad abbracciare posizioni separatiste, minacciando la ricostituzione dell'antico Stato di Milano.(57)
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