Uno sguardo ‘strutturale’ al futuro del Mezzogiorno
• Chi vi parla ha quest’anno la responsabilità, l’onore e l’onere di avviare, con qualche generale notazione e riflessione, il dibattito politico-tecnico sul “Rapporto sull’economia del Mezzogiorno” predisposto e presentato dalla SVIMEZ, dibattito che negli anni scorsi era stato introdotto dal mio predecessore Massimo Annesi – improvvisamente ed improvvidamente scomparso, e sulle cui qualità di acuto giurista, e sui contributi da lui offerti nel tempo alla messa a punto della legislazione sugli interventi nel e per il Mezzogiorno ci sarà occasione di tornare in futuro –, ed ancor prima di lui veniva autorevolmente introdotto, dal lontano 1975, dal Presidente prof. Pasquale Saraceno, che della SVIMEZ è stato tra i fondatori e per quasi mezzo secolo animatore instancabile. Al loro insegnamento ed ai loro convincimenti mi sforzerò qui di ispirarmi, volendo invitare i presenti – e i meridionali, e il Paese – a guardare al futuro.
• I dati presentati in questa trentesima edizione del “Rapporto SVIMEZ” mettono in evidenza un andamento congiunturale del 2004 caratterizzato da uno “sviluppo lento”. In proposito l’esposizione delle linee del Rapporto, fatta dal Direttore dell’Associazione, hanno evidenziato le ombre di un anno non facile, ombre che certo frenano gli ottimismi talora espressi sui risultati di anni recenti un pò troppo esaltati. Ma l’esposizione ha anche dimostrato che, ciò nonostante, nell’intero periodo 1996-2004 gli indicatori positivi prevalgono su quelli negativi, seppur certo sia gli uni che gli altri rappresentano un trionfo della “cultura del decimale”, su cui sarebbe doveroso che tutti facessimo una qualche autocritica.
• A partire da tali dati – qui già esposti e commentati, e su cui non ritorno malgrado la loro ricchezza in termini di non controvertibile e determinante documentazione – mi sia consentito di sottolineare con franchezza i limiti che ritengo inevitabili nei giudizi che troppo si occupano di inseguire per un verso quasi soltanto la congiuntura a breve o anche di medio periodo, e le sue oscillazioni positive o negative, assolute ed in confronto col Centro-Nord o con economie estere [e se l’ultimo anno è negativo o positivo per l’economia o per l’export o per la spesa pubblica, si cerca conforto in un anno, o in un trimestre, o in un mese precedente; e viceversa], e per altro verso soprattutto dati ed elementi relativi a singole realtà territoriali del Sud [un pò meglio o un pò peggio rispetto ad un’altra regione o micro-area, quasi fossimo in un derby], mentre troppo pochi sono quelli che si sentono impegnati a guardare lontano, ed insieme a guardare all’unità del Mezzogiorno, che ci appare ed è la dimensione minima – al di sotto di quella nazionale – per scelte, per politiche e per interventi determinanti.
Per fortuna, all’unità del Sud hanno saputo recentemente richiamarsi, evocandone dal basso l’esigenza, i responsabili dell’insieme delle Regioni meridionali, che hanno dovuto prendere atto di alcuni effetti forse non previsti di un troppo esaltato federalismo, ed in prospettiva degli effetti di una ulteriore “devoluzione” inevitabilmente squilibrata, e che insidia l’unità stessa dello Stato nazionale, da cui l’efficacia delle politiche di riequilibrio e di coesione non può prescindere.
La prospettiva del federalismo è accettabile per il Mezzogiorno – e quindi per l’intero Paese – solo se venga legata all’opzione che la “lotta contro il permanere del dualismo” venga assunta come primario interesse nazionale, e sia finalizzata ad una prospettiva di tutela dei diritti di cittadinanza sociali e civili da riconoscere a tutti gli italiani, sulla base della individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni connesse a quei diritti.
Da queste considerazioni e scelte devono muovere le proposte per attuare un “federalismo fiscale” ispirato a concreti criteri di solidarietà ed eguaglianza. Su questo terreno non è mancato – e proseguirà – l’impegno di elaborazione e proposta da parte della SVIMEZ, finalizzato soprattutto al dialogo con le Regioni del Mezzogiorno.
• Non è questa le sede per argomentare e motivare la tesi sull’opportunità che, in una situazione quale quella che caratterizza da lunga data il Mezzogiorno, occorra spostare l’attenzione dalla congiuntura alla struttura – intendendo così riferirci a mutamenti profondi nei meccanismi stessi del sistema produttivo – ed insieme spostarle dal locale all’insieme – ritenendo che quando non si riesce a registrare effetti di crescita nell’intero territorio è forte il rischio di maggiori tensioni interne all’area meridionale –, avendo peraltro coscienza che anche le eventuali difficoltà di taluni settori nel Sud sono soprattutto l’effetto di crisi non meridionali, influenzate da fattori generali e nazionali: oggi per l’automobile (o per i divani), come ieri per la siderurgia e per la chimica.
È certo comunque – preoccupandoci del futuro – che ciò che importa è ottenere risultati in base ai quali il Mezzogiorno nel suo complesso (particolarismi e casi di eccellenza a parte, che sono certo importanti ma quasi mai determinanti) non rimanga per l’Italia solo un problema, invece che anche una sua possibile opportunità. Su tale alternativa non mi intrattengo qui, salvo che per rinviare ai contenuti di un recente testo in cui ci siamo sforzati – in totale sintonia con le posizioni pubblicamente espresse dal nostro Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi – di motivare come, puntando sulla sua “nuova centralità geo-politica” e sulla sua relativa “giovinezza”, il Mezzogiorno può divenire un’occasione per l’intero Paese (1).
• Io credo che siano evidenti e ragionevoli i motivi per cui il meridionalismo italiano rappresentato dalla SVIMEZ non ritiene di poter essere particolarmente soddisfatto della circostanza che il PIL pro capite del Mezzogiorno si trovi ancor oggi ad un livello pari ai due terzi della media italiana (ed al 55% del PIL medio del Centro-Nord) ed insieme quasi ai tre quarti della più bassa media dell’Europa a 25.
Tuttavia – al di là di questi macroscopici differenziali di benessere economico – non si può non osservare che in Italia ci si trova in presenza di altre sistematiche profonde “divaricazioni”, e dei loro assai pesanti effetti sulla struttura produttiva, sull’occupazione, sul risparmio e sui modi di vita dei cittadini di uno stesso Stato; eppure quasi nessuno parla del “dualismo”, e da molti si evita addirittura di riferirsi ai “divari”, ai “ritardi”, agli “squilibri”, che pure sono tristi e diffuse condizioni oggettive, la cui rilevazione e denuncia nulla ha necessariamente a che vedere con aspirazioni alla omologazione, o all’uniforme allineamento di tutti e di ciascuno con i modelli di civiltà e di vita propri di aree “avanzate” e “dominanti” del Mondo, con cui molti sono in radicale ma poco produttiva polemica.
Chi del dualismo e dei divari invece ne parla – come la SVIMEZ storicamente ha fatto e fà – viene spesso definito (sia dai “conservatori” acharnès, sia dai “nuovisti” radicali) un pessimista ed un piagnone. Ed è culturalmente e politicamente grave che sia da parte di chi governa che da parte di chi si candida a governare, venga dato spazio a paludati o fantasiosi sostenitori di distorsive generalità in proposito: dai molti Sud, all’elogio di valori c.d. “meridiani” come la lentezza, al micro-sviluppo e all’auto-sviluppo, alle molte facce di una esasperata discontinuità fin rispetto agli approcci internazionali allo “sviluppo” finora storicamente usati nel Mondo per superare le condizioni di ritardo e di arretratezza.
Ed invece, in un Paese dualista – di “due Italie” parlavano già i nostri nonni, e Saraceno stesso parlò dell’Italia come di una sorta di “federazione di due economie” –, l’esistenza ed intensità degli squilibri, troppo nettamente concentrati da noi in senso geografico, rende impossibile la coesione territoriale.
Sugli indicatori delle “differenze” nella geografia dei territori italiani (cui è stata dedicata quest’anno una specifica attenzione in un nuovo capitolo del Rapporto della SVIMEZ) le analisi condotte su una nostra Rivista dal prof. Monorchio, Presidente di “Infrastrutture Spa”, che ha posto a confronto gli indicatori SVIMEZ con quelli di Confindustria-Ecoter e dell’Istituto Tagliacarne dell’Unioncamere, hanno evidenziato che – comunque i dati vengano rilevati ed aggregati – vi è piena concordanza di risultati in ordine alla indiscutibile gravità dei molti ritardi rilevabili nei territori del Mezzogiorno.
Per il futuro gli squilibri meriteranno di essere esplorati – con ottiche che vadano oltre l’economicismo – non solo nelle infrastrutture, o nel lavoro, o nella industrializzazione, ma anche con riferimento a temi, questioni ed aspetti – ambientali, scientifici e latamente culturali – che fino ad ora sono stati considerati rilevanti solo per spiegare il ritardo nazionale rispetto al Mondo avanzato, o per motivare rilevabili tendenze ad un nostro tendenziale declino relativo.
• Proprio pensando alle difficoltà – largamente connesse ai differenziati ma comunque cospicui divari e ritardi dei territori di molte sue Regioni – in cui l’Italia si trova nel prospettarsi di pervenire alla coesione nazionale in tempi compatibili con la democrazia e con le attese dei cittadini elettori, lo scorso anno abbiamo argomentato qui (ebbe a farlo, da par suo, Massimo Annesi) sulla necessità di identificare e definire una sede di responsabilità politica in materia di “sviluppo e coesione”, prospettiva che almeno come definizione abbiamo visto da poco adottata da questo Governo (e ce ne compiacciamo con il non più vice-ministro, ma ora ministro on. Micciché), anche se non vediamo ancora – pur dopo la Legge 25 giugno 2005 n. 109, di conversione del Decreto 26 aprile 2005, n. 63 – i modi e il luogo fisico in cui l’endiadi sviluppo/coesione possa operativamente concretarsi, vincendo gli ostacoli al “coordinamento” interministeriale ed interistituzionale che in mezzo secolo non si è mai finora riusciti a superare in Italia.
Il sostanziale diffuso rifiuto di riconoscere la rilevanza degli squilibri e del dualismo nazionale – problemi che non sono figli di una nostra insistita lettura della realtà, e che non riflettono una sorta di “cultura del divario”, ma solo la gravità dei numeri, che da sempre sono sistematicamente testardi – fa sì che nessuno dica e sottolinei che mentre le Regioni avanzate e forti possono limitarsi in Italia ad accompagnare lo sviluppo e la crescita della produttività nei loro territori, le Regioni deboli e in ritardo – che hanno dietro di sè una minore storica accumulazione economica e civile – devono invece impegnarsi anche a rendere possibile l’avvio di uno sviluppo che nei loro territori non c’è, o nei quali comunque l’economia funziona in modo diverso e meno efficiente che nei Paesi più avanzati, con cui pure ci confrontiamo sui mercati [mercati che non sono più segmentati o parcellizzati come ieri, e che tendono ad essere – quando non lo sono già – mercati globali, contro cui continuano a combattere una loro guerra alcuni ignari o fissati “giapponesi”].
L’assenza di sviluppo, così come le profonde debolezze di un’economia troppo dissimile da quelle più forti che si sono affermate nel mercato concorrenziale, sono condizioni da cui non si esce per decreto, né certo in tempi brevi. E promuovere lo sviluppo – specie quello industriale, e con ambizioni di competitività – è particolarmente difficile in un’area che, come il Mezzogiorno, presenta costi del lavoro non bassi (perché influenzati dai livelli delle zone nazionali avanzate), e che si caratterizza insieme sia per l’assenza di un disegno di politica industriale, sia per una storica minore dotazione di infrastrutture funzionali, necessaria premessa – queste ultime – alla profittabilità ed alla efficiente gestione di medio- piccole aziende.
È proprio anche in questo campo delle dotazioni infrastrutturali, i differenziali quantitativi e qualitativi risultano assai elevati (2). Tutti tali accennati fattori, già di per se ovunque penalizzanti, acquistano un più determinante peso negativo in un’area che come il Mezzogiorno non risulta destinataria di una organica, adeguata ed efficace politica pubblica (economica, industriale, infrastrutturale, scientifica, sociale, ma anche fiscale) capace di contrastare frontalmente e coordinatamente il dualismo nazionale. Ed il peso di tali fattori tende inevitabilmente a frenare le possibili scelte di imprenditori specie esterni, che non riescono a trovare complessiva convenienza nell’ipotizzare la localizzazione nel nostro Sud di loro nuovi investimenti concorrenziali significativi nelle manifatture, nell’industria turistica, nei servizi produttivi.
Ho citato seppur genericamente questi comparti – l’industria manifatturiera, il turismo internazionale, i servizi funzionali alle produzioni – perché noi siamo tra quelli che pensano che un’area grande quanto il Mezzogiorno non possa divenire un’economia ed una società fatta (a parte agricoltura di mercato, primario, e servizi pubblici e pubblico impiego) di consumatori, o prevalentemente di addetti al consumo e all’intermediazione, ruoli certo necessari, ma che non possono diventare esaustivi. Generare ricchezza producendo beni e servizi “manufatturati” (anche nel turismo), resterà per lungo tempo ancora – in un’ottica di sviluppo di cui il Sud ha prioritario bisogno – una necessità e addirittura un valore, rispetto al ruolo di chi solo distribuisce.
• Accanto all’industria, guardando allo sviluppo necessario di un territorio grande quanto il nostro Sud, i “servizi” più essenziali e validi sono soprattutto quelli che servono a qualcuno che produce qualcosa, di primario o secondario. La mitologia della rilevanza dei “servizi” legati alla immaterialità edonistica – l’opzione che privilegia, cioè, i servizi al divertimento, o all’immagine, o alla comunicazione ritenuta più moderna, o al successo, servizi la cui diffusione si alimenta attraverso la moltiplicazione di improbabili imprenditori senza radici e senza esperienza, che costituiscono (magari con lo strumento di un franchising apparentemente senza rischi) precarie imprese, con addetti altrettanto precari, destinate alla domanda di chi dispone di non si sa quale ricchezza, e al consumo di chi non si conosce di che cosa viva –, quella mitologia sta facendo assai male.
Io temo di parlare come un maldestro sociologo moralista, ma mentre posso anche ipotizzare di cambiare le mie personali idee, non posso certo pensare di cambiare la storia e le finalità della SVIMEZ, che del futuro del Mezzogiorno si occupa e si preoccupa coltivando proprio l’obiettivo dello sviluppo produttivo e dell’industrializzazione. Ma è appunto per questo che sono convinto che più ancora che alle zone avanzate dell’Italia, la deriva che stiamo vivendo rischia di star facendo assai male proprio alle zone deboli, povere e in ritardo, perché produce una falsa e distorta immagine nazionale e internazionale delle nostre anche medio-piccole città di provincia.
Malgrado esse siano spesso incivilmente prive di acqua corrente nelle case e negli alberghi stessi, tali cittadine meridionali finiscono talvolta con l’apparire non diverse (gli stessi negozi eleganti e super illuminati, ed analogamente ben assortiti di prodotti di marca o dell’ultima reclamizzata moda) da quelle che si trovano nella provincia di un Nord in cui vivono cittadini italiani che – più produttori di beni rispetto al Sud (perché anche questo è un indice delle nostre “divaricazioni” nazionali) – hanno un reddito pro-capite certamente superiore a quello dei clienti meridionali.
Ma la deriva dei servizi rispetto ai beni sta facendo male al Sud anche perché produce nei meridionali stessi una falsa immagine dell’accumulazione e del lavoro, confermando quasi l’idea veicolata dai media nazionali secondo cui è giusto e possibile far rapidamente soldi, e con essi avere successo, che poi sarebbero i valori su cui è oggi meglio contare, piuttosto che sul lavoro. Ma quale altro modello di economia e di società – quale altro “progetto di sviluppo” – è stato proposto o favorito, nel Sud e per il Sud?
• Eppure proprio di un “disegno” e di un “progetto” il Mezzogiorno – un’area debole, troppo in ritardo rispetto all’industrializzazione concorrenziale, e rispetto alla storia che altrove sembra ora voler correre – ha bisogno. E l’esperienza storica ed i dati degli anni recenti hanno confermato e reso evidente – in presenza di differenziali profondi nel sistema della produzione, nella quantità e qualità dell’occupazione, nelle dotazioni del territorio quanto ad infrastrutture produttive e civili (spesso oggettivamente propedeutiche – si ripete – al radicamento e al successo delle attività tradizionali e nuove) – la rilevanza in Italia del problema del tempo necessario per raggiungere un maggiore equilibrio territoriale, anche solo nelle condizioni dei contesti su cui l’economia si fonda e può prosperare.
In conseguenza di ciò, la durata dei processi di convergenza verso la coesione – e quindi verso l’unificazione economica nazionale, come in altri momenti Pasquale Saraceno ebbe a definire il compito davanti al quale l’Italia già allora si trovava – diventa troppo lunga, ed i tempi quasi secolari. Ma anche di questo sia politici sia studiosi spesso facondi si occupano poco, ed anche le preoccupate documentazioni offerte in proposito dalla SVIMEZ sembrano non trovare ascolto sostanziale(3).
Se poi ai tempi lunghi dei processi strutturali del cambiamento si uniscono i tempi lunghi derivanti dai ritardi, dai rinvii, dalle parcellizzazioni delle risorse e degli stanziamenti, dall’ipertrofia regolamentare, dal moltiplicarsi dei conflitti di competenza e dai diritti di veto dei centri e delle periferie, e da troppe diffuse inefficienze nazionali, allora la prospettiva per le nostre aree deboli – che purtroppo corrispondono, ricordiamocelo sempre, ai territori dell’insieme delle Regioni del Sud – diventa oggettivamente preoccupante.
• Come SVIMEZ siamo nati a cavallo del 1946-47, e proprio l’anno venturo speriamo di avviare una pubblica riflessione su 60 anni di storia e di politiche per lo sviluppo dell’Italia e del Mezzogiorno. In quegli anni del dopoguerra, costituendo questa Associazione, i nostri ‘padri fondatori’ si diedero e poi ci lasciarono mandato di avanzare e suggerire ai poteri pubblici programmi e proposte.
Nella situazione in cui ci si trova oggi, molta parte di quel mondo produttivo che allora volle e seppe promuovere e sostenere la SVIMEZ non risulta più – salvo poche meritevoli eccezioni – neppur vicino ed attento al nostro sforzo ed impegno. Venuta meno la tensione morale di quella straordinaria fase postbellica, molta parte di quel mondo si è disimpegnato, e ci dice di dover pensare soprattutto ai profitti e alla redditività delle proprie imprese, e non a generali finalità di progresso nazionale, che pur tutti dichiarano di condividere, ma di fatto delegate a poteri pubblici che localmente fanno fatica ad affermarsi, e che centralmente si sono frattanto indeboliti e distratti, e per i quali in via generale il Mezzogiorno è – quando lo è – solo uno dei molti problemi di cui darsi carico, salvo che per chi direttamente se ne occupa, e che per ruolo si considera auto-attrezzato per elaborare strategie e proposte e per definire concreti programmi.
• Noi della SVIMEZ da sempre crediamo che sia essenziale, per lo sviluppo della Nazione, che vengano perseguiti e raggiunti espliciti e quantificati obiettivi di coesione economica e civile tra tutte le diversificate realtà del territorio del nostro Paese, anche e proprio perché dalla intensità degli strutturali squilibri territoriali tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno l’Italia è resa ed appare anche internazionalmente debole, concorrendo così a farci contare relativamente poco nel Mondo, rendendo sempre meno salda la nostra collocazione in molte sedi autorevoli, o comunque vissute come prestigiose [dall’ONU all’ex G.8].
Certo, raggiungere obiettivi di “coesione” tra territori ed economie divaricate, non è compito mai agevole per nessun Paese. Noi, in più, stiamo vivendo oggi una fase storica liberale che esalta la concorrenza [cui una parte cospicua delle Regioni italiane in ritardo non può peraltro partecipare paritariamente proprio per la debolezza che ne caratterizza le dotazioni e quindi il contesto produttivo e civile], in un Paese che inoltre, almeno per qualche tempo, si è illuso di poter dedicare una sproporzionata enfasi alle sole problematiche regionali e locali, quasi che esse – ed i poteri e le istituzioni chiamate a darsene carico – fossero determinanti, ed insieme potenzialmente autosufficienti.
Forse oggi nessuno pensa più che sarebbe stato opportuno affidare a tali poteri locali, ad esempio, le scelte connesse ad un progetto quale Galileo – che si dedica alla sicurezza satellitare dei traffici e quindi dell’economia –, o le scelte per l’energia, quali si prospettano con la sperimentazione degli impianti a “fusione nucleare fredda” del progetto Iter, che la Francia ospiterà nel Mondo. Ma certo, nelle condizioni in cui siamo, sarà egualmente assai difficile che anche i poteri pubblici nazionali riescano a darsi l’impegnativo carico di programmare e realizzare, essi, condizioni di parità in ordine alle dotazioni funzionali del contesto [ed anche le avanzate scelte citate si tradurranno domani in dotazioni territoriali], pur solo con riferimento alla macro-regione del Mezzogiorno, se esso a sua volta non si organizzerà per pensare ed agire come un soggetto unitario.
Ma proprio tali difficoltà sono per noi fonte di preoccupazione, perché troppo profondo è il macro-divario del Sud rispetto alle dotazioni delle aree forti del Centro-Nord e dell’Europa. E se è vero che il “differenziale nelle dotazioni” si rileva cospicuo nei campi delle infrastrutture più avanzate ed innovative [che peraltro non devono servire come alibi per illusorie “fughe in avanti” verso una modernità tutta elettronica ed informatica, che non abbia radici salde nell’economia delle produzioni e dei loro traffici], tale differenziale è presente anche nel campo delle più tradizionali reti destinate a soddisfare esigenze produttive e civili magari elementari e correnti.
Cito tra esse le reti di quel bene primario che per il Mezzogiorno resta l’acqua, di cui non ci si è più occupati responsabilmente dopo la soppressione della indebolita Cassa, e su cui quasi nessuno osa evocare l’ipotesi tecnicamente fattibile del trasferimento di risorse idriche dal Bacino del Po verso l’assetato Meridione. Ma quel differenziale è nei fatti troppo ampio per poter essere riassorbito ed annullato dai risultati che le scelte del mercato – o la dialettica tra le istituzioni – potranno determinare.
• Affinché in Italia ci si muova in direzione del raggiungimento di risultati di riequilibrio [non pretendendo di ottenere subito pari condizioni di contesto produttivo, ma almeno assicurarsi pari opportunità nel potervi pervenire domani], appare necessario che siano comunque definite linee ed orientamenti per lo sviluppo dell’Italia e per la sua coesione territoriale: uno scenario quale fu lo Schema Vanoni, o un disegno a lungo termine analogo al Progetto 80, o a scala europea al Piano Delors; di nessun documento di tal tipo si è più visto nulla di simile.
Ma ciò non avverrà certo fabbricando ed enunciando un qualche programma- elenco (in cui si ritrova sempre un po’ di tutto, come non è difficile fare), ma solo costruendo un programma-leva, che individui cioè il punto, ed il fulcro, cui applicare uno sforzo decisivo. Ma forse occorre avere il coraggio di dire che presupposto di un programma-leva – attorno a cui dovrebbero impegnarsi a lavorare politici ed economisti, come anche urbanisti e geografi – è che nella necessità di esso, e insieme nella scelta della “coesione territoriale” come fulcro di tale programma, l’Italia ci creda.
Purtroppo invece oggi non c’è intesa neppure intorno ai contenuti delle politiche, rispetto alle quali sarebbe necessario che si sapesse uscire dalla paralizzante logica delle contrapposizioni frontali, puntuali e sistematiche [ma non per questo pensando ad una qualche forma di “compromesso”, essendo troppo facile “promettere insieme” per poi non farne nulla] in ordine a ciò che è decisivo per l’Italia: la “coesione territoriale”
Solo all’interno di tal tipo di linee ed orientamenti – alti, strategici, proiettati nel futuro – potranno infatti individuarsi e definirsi i diversi pesi ed i concreti ruoli da attribuire: all’industrializzazione; alle opere ed ancor più alle reti; al turismo; alla logistica; al mare; alle città; alla sicurezza delle imprese; cioè a settori, campi ed ottiche da approfondire, collocando per quanto possibile tutti i problemi in scenari geopolitici non localistici, ma nazionali, europei o mediterranei.
• Certo, non tutto di ciò che sarebbe necessario per costruire la “coesione” sarà forse possibile realizzare in tempi pur ragionevolmente lunghi. In tal caso tutto quello che a qualche motivato e verificabile titolo si ritenesse di non poter né realizzare né concretamente prevedere, sarebbe il caso di dirlo e dichiararlo con onestà e chiarezza, perché il realismo e la verità sono meglio delle promesse, che prima alimentano attese e poi provocano delusioni.
Per il cosiddetto “Corridoio 8” tra la Puglia e il Sud-Est dell’Europa – ad esempio – poco o nulla si è fatto, e non solo in termini di progetti e di opere; ancor meno di significativo si è infatti avviato per il rafforzamento prospettico dell’economia complessiva della Puglia e dell’intero Mezzogiorno, al cui servizio il “Corridoio”, con le sue reti non solo di funzionali porti, strade e ferrovie, ma anche di gasdotti, elettrodotti e quant’altro, dovrebbe divenire operante (come abbiamo già sostenuto qui lo scorso anno, parlando di integrazione della Puglia sia verso Nord, col Molise e l’Abruzzo, sia con la Calabria e la Sicilia, attraverso la Basilicata).
In una prospettiva da molti considerata forse troppo lontana, ma che non è un fumoso e fantasioso futuribile, appare evidente – ed è solo un altro esempio – che o si riesce, attraverso la Sicilia ed il Mezzogiorno, a collegare fisicamente, con un tunnel sotto il Canale di Sicilia, il Nord-Africa e l’Europa – assicurando comunque e frattanto un ruolo significativo nel bacino del Mediterraneo ad un Sud dell’Italia che nel suo insieme divenga tutto più sviluppato e più avanzato –, oppure per il nostro Mezzogiorno vi sarà ben più che il rischio di restare periferia dell’Europa [così come l’Europa (e noi più di altri in essa) rischia di divenire anch’essa periferia, non solo degli Stati Uniti, ma anche dei grandi, determinati e popolosi nuovi Paesi che stanno accelerando la loro storia].
Ed è nell’indicata ottica – che è ottica di sviluppo organico, intersettoriale ed integrato dell’intero Sud Italia [che pure non può certo contare oggi su impraticabili ipotesi settoriali pubblicistiche, perché per quanto attiene alle scelte dei beni manifatturieri da produrre è pressoché solo con il mercato che alla fine bisogna fare i conti], ed insieme è anche alternativa ad un allargamento dell’UE che è stato troppo uni-direzionale verso l’Est “povero” dell’Europa – che il disegno strategico e strutturale del collegamento economico tra i Paesi del Nord-Africa e l’Italia, ed attraverso l’Italia con il Nord dell’Europa e viceversa, può diventare una prospettiva sia europea sia per l’Europa, e non solo un’opzione nazionale, o addirittura solo meridionale.
Il superamento stabile dello Stretto di Messina [una discussa opera, che richiede di essere rigorosamente verificata sia in tutti i suoi aspetti economici e tecnici sia sotto il profilo del reale concorso privato al suo finanziamento, attraverso una “finanza di progetto” non ancora mai sperimentata a questa scala in Italia, ma l’opposizione alla quale, rispetto a ciò che di geografia volontaria stà facendo ad esempio la Cina, mi pare tuttavia troppo principiale ed estremizzata] servirebbe ad assai poco se venisse considerato soprattutto come un’operazione siculo-calabrese, e non come parte di un Corridoio da Berlino al Nord-Africa. In alternativa, è assai probabile che frattanto l’Europa non potrebbe non decidere di accelerare e potenziare la definizione di un analogo proprio collegamento attraverso il tunnel previsto tra Spagna e Marocco, sotto lo Stretto di Gilbilterra, tagliando fuori così da ogni realistica prospettiva continentale non solo il Mezzogiorno ma l’Italia intera, e vanificando il ruolo stesso di una parte significativa della rete delle cosiddette Autostrade del Mare, su cui il Mezzogiorno e l’Italia hanno detto di far conto.
• Come risulta chiaro da questi pur provocatori esempi, darsi carico dell’esigenza di definire scenari in cui collocare priorità e scelte, e darsi parimenti carico di indicare i termini e le caratteristiche di processi capaci di assicurare la realizzazione di concreti programmi – [di cui vengano cadenzati i pur lunghi tempi, ma ai quali venga soprattutto garantita la disponibilità delle necessarie cospicue risorse, che l’Italia potrà trovare e rendere disponibili solo incidendo su tutto ciò che nell’economia e nella società è impropriamente sommerso e nascosto, anche al fisco] – sono tra le condizioni perché il Mezzogiorno possa passare dall’essere problema a divenire opportunità, con benefici per l’intero Paese, come noi auspichiamo, e come ci era parso a suo tempo di leggere nel c.d. “Patto per l’Italia”, che sotto tanti profili appare essere stato quasi cancellato.
• Nei rapporti con l’Unione Europea – con la quale una seria politica di sviluppo e di coesione dovrebbe dall’Italia essere concordata e coordinata – il problema prioritario per noi non è solo quello di poter continuare a disporre di quelle risorse per investimenti con cui l’Europa partecipa (purtroppo in Italia non solo nel Sud, ma anche in Regioni ed aree ricche ed avanzate del Nord) al finanziamento di alcuni programmi, talvolta oggettivamente minori e localisticamente dispersivi; ancor più essenziale per noi è che venga ridiscussa la logica degli aiuti pubblici, che l’UE dovrebbe consentire possano divenire utilizzabili per il futuro nel Mezzogiorno, grande regione complessivamente debole, che ha certo bisogno di continuare a svilupparsi [anche se vi sono anche altrove in Europa aree che ne hanno pari o maggior bisogno, ed i cui problemi concorrono a imporre un generale ripensamento dei regolamenti europei].
La nostra macro-regione meridionale non può essere di fatto penalizzata dalla circostanza di essere parte di uno Stato il cui livello medio di ricchezza e benessere lo colloca ad un gradino superiore a quelli che sono i parametri che l’Europa si è data, parametri che con l’ultimo macro-allargamento hanno mostrato tutti i loro limiti sostanziali. Ed invece il fatto è che la perdurante mitizzazione da parte dell’UE del principio della concorrenza condiziona troppo l’Europa, ed appare costituire un potente ed oggettivo vincolo per le politiche in favore delle aree deboli di un Paese come l’Italia [un Paese nazionalmente non povero, ma anche non ricco, proprio perché dualista], di cui le regole dell’UE frenano le prospettive del Mezzogiorno, contrastando complessivamente nei fatti l’obiettivo della coesione in uno degli Stati fondatori.
In tali condizioni sarà prima o poi essenziale ottenere dall’Europa che il Mezzogiorno – se del caso assieme ai Länder dell’ex RDT, nell’Est della Germania, Paese che peraltro ha saputo fare assai più di noi per quei suoi territori – venga considerato come macroregione di livello NUTS 1, e chiedere che se ne traggano tutte le implicazioni, riaprendo tutti i giochi europei:
• sugli attuali criteri e parametri con cui accedere agli “Obiettivi” ed ai “Programmi” prioritari;
• sull’ingiusta esclusione dagli “aiuti” del Mezzogiorno e di sue Regioni solo statisticamente quasi “ricche”; • sulle troppo costose ed insoddisfacenti politiche agricole;
• sugli inaccettabili rimborsi all’Inghilterra;
• sui Paesi destinatari del ‘Fondo di coesione’, da cui una improvvida decisione UE ci ha a suo tempo escluso, e che viene ora riservato solo agli Stati nel loro insieme “poveri”;
• e tant’altro.
A tutto ciò che l’Unione Europea ha deciso e regolamentato a tali indicati titoli, avremmo dovuto per la verità opporci a suo tempo, avendo un oggettivo peso maggiore ed un diritto di veto analogo a quello di cui solo recentemente si è per la prima volta parlato, anche se comunque è certo bene che vi sia stato un sussulto di determinazione nella vicenda della pur ragionieristica ripartizione dei fondi di Bilancio dell’UE fino al 2013. Tale ripartizione, da sola, è problema la cui soluzione non potrà in alcun modo risultare allo stato delle cose né agevole né soddisfacente. Per ottenere tali risultati, infatti:
- occorre contrastare la pretesa dell’UE di poter perseguire, in un’Europa che si è assai allargata verso Paesi “poveri”, politiche realistiche di generalizzata “coesione”, senza dedicare a questo obiettivo più significative risorse addizionali [non farlo è pretesa assurda, come sapeva la saggezza popolare dei nostri antenati, che quando necessario ricordavano a tutti che “senza soldi non si canta Messa”];
- occorre contestare l’opinione dell’UE secondo la quale gli aiuti pubblici – ivi compresi eventuali incentivi fiscali che siano effettivamente “compensativi” dei differenziali presenti nel contesto produttivo, e quindi capaci di creare “vantaggi” che influenzino l’allocazione internazionale degli investimenti – che gli Stati decidessero di destinare ad un più rapido progresso delle loro aree deboli, siano da considerare quasi necessariamente come una sanzionabile violazione del principio della concorrenza, il cui concetto stesso richiede invece di essere ridefinito;
- occorre ottenere che vengano cambiati i parametri di base per una effettiva politica di “sviluppo e coesione” dell’Unione Europea, e soprattutto il principio con il quale si è arbitrariamente stabilito che le regioni il cui PIL pro capite raggiunga il 75% della media comunitaria [anche se il loro scarto rispetto alle aree più ricche del Paese e dell’Europa rimane troppo rilevante – come in Abruzzo, in Molise, in Basilicata ..., già tuttavia escluse dai benefici del c.d. “Obiettivo 1”] debbano considerarsi soddisfatte di non essere considerate bisognose di concorsi al loro riequilibrio e ad una reale coesione, con la Nazione e nel Continente
Se tutto ciò non dovesse avvenire, allora sì che una grande ed unitaria macro-regione debole si troverebbe relegata in un cul di sacco, condizione da cui per il Mezzogiorno sarebbe di fatto impossibile uscire.
Se la politica italiana – per motivazioni tattiche o altre – dovesse accettare una prospettiva di questo genere, sarebbe cosa saggia e doverosa dichiararlo (e forse sancirlo in qualche modo davanti al Paese), rendendo chiari a tutti i termini in cui potrebbe prospettarsi – quasi necessariamente al di fuori da un quadro di pur ricercata “coesione” europea – la futura condizione e collocazione internazionale del nostro Mezzogiorno.
• Ecco perché, guardando a questa tipologia di possibili ma non necessari sbocchi che potrebbero riguardare il dopodomani – che all’inizio ho chiamato “strutturali”, perché riferiti ad eventi ed esiti capaci di favorire od impedire mutamenti profondi nei modi stessi di funzionamento del sistema produttivo dell’area debole della nostra Italia – non possiamo non confrontarli con i possibili eventi “congiunturali” della politica di breve andare e con le prospettive di domattina, quali certo saranno quelle – pur le migliori, confidiamo – che si riuscirà ad inserire nel DPEF per il prossimo anno.
Ma proprio riflettendo su questa alternativa, non possiamo impedirci di dire che il Mezzogiorno sarebbe certo più soddisfatto se i Governi diventassero capaci di occuparsi con sempre maggiore efficacia, e con più adeguate risorse effettivamente spendibili – del “che fare”, ma guardando anche al “dove andare” (ed in quanto tempo). Cioè se i Governi governassero l’oggi, ma con un occhio attento alle strategie – e forse all’utopia – da cui nasce il futuro.
• Proprio per questo noi della SVIMEZ – che ci consideriamo amici di Platone ma ancor più della verità, e che non abbiamo mai acceduto a prospettive politico-partitiche di “Mezzogiorno all’opposizione” o a facili suggestioni di “Leghe del Sud” – ci sentiamo impegnati – al di là di ogni eventuale rilievo critico, quando necessario – a continuare nel nostro storico ottimismo, nazionale ed anche europeistico.
Confermiamo infatti di credere che ci sono in Italia le potenziali condizioni per un processo di strutturale convergenza verso la coesione, processo pur necessariamente lungo, ma proprio per questo da avviare presto, e con grande determinazione, e con le necessarie risorse. Ed insieme umilmente dichiariamo al Paese che – per quanto nelle nostre forze, intelligenze e risorse – ci sentiamo impegnati a continuare ad operare verso un tale risultato, nazionale e meridionalista.
Roma, luglio 2005
(1) (1) Il testo “Mezzogiorno questione nazionale, oggi “opportunità” per l’Italia” si trova nel Quaderno SVIMEZ n. 4, del marzo 2005.
(2) (2) Tanto elevati che un’esperienza di “aree compiutamente attrezzate e pronte all’uso”, avviata pionieristicamente e poi ingiustamente arenatasi in Sicilia, è stata di recente indirettamente evocata come possibile stimolo ad ipotizzati “investimenti cinesi” nel nostro Sud. Si veda A. Forchielli e G. Prodi, “La sfida asiatica: una proposta per l’Italia. Parchi industriali da creare e joint venture legali”, in “Il Sole-24 Ore” del 29 giugno 2005, p. 6.
(3) (3) Chi lo vuole può leggere con qualche interesse il testo di una audizione SVIMEZ davanti a due Commissioni Parlamentari della Camera dei Deputati, nella versione che, con tutti gli allegati, è stata da noi raccolta nel Quaderno SVIMEZ n. 5, dell’aprile 2005
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