“Spero di non urtare troppo la vostra sensibilità e di non ferire il vostro legittimo orgoglio patriottico, ma se dovessimo chiudere una banca ogni qual volta constatiamo una o due azioni fraudolente, avremmo assai meno banche di quante ne abbiamo adesso”.
Cosi sir Robin Leigh-Pemberton, Governatore della Banca
d’Inghilterra, dichiarava ai Comuni nella seduta del 23 luglio
1991 in cui si discuteva dello scandalo nel quale era coinvolta
la B.C.C.I. - Banca di credito e commercio internazionale -.
Non c’è bisogno, quindi, di adontarsi più di tanto,
di fingere cotanta indignazione di fronte all’ennesimo
“scandalo” bancario di Fiorani e dei suoi,
autodenominatesi, “amici del quartierino”. Gli italiani,
come al solito, hanno la memoria corta ed, evidentemente, hanno
già dimenticato le vicende del Banco Ambrosiano, di Calvi, di
Sindona, dello I.O.R. e i tanti “salvataggi” pilotati degli
anni ’60 e ’70 del secolo scorso.
E se vogliamo andare
ancora indietro nel tempo dovremmo ricordarci come è nato
l’I.R.I. negli anni ’30 e ricordare che aveva inglobato ben
tre banche, non a caso, denominate di interesse nazionale: il Credito
Italiano, la Banca di Roma e la Banca Commerciale Italiana - la famosa
COMIT - e non dimenticare, certo, lo scandalo della Banca Romana e
neppure quello del Banco di Sicilia nel 1901. E se proprio vogliamo
risalire alle origini degli scandali capitalistici non si può
non menzionare quello che ne è l’archetipo e cioè
la vicenda del finanziere inglese John Law e della Compagnia delle
Indie nel 1719.
Su questa storia Luigi Chitti, economista originario di Cittanova,
esule in Belgio e quivi diventato imprenditore, banchiere e docente di
Economia Politica all’Università di Bruxelles, (a
proposito, bisognerebbe smetterla di ritenere gli inglesi fondatori
dell’Economia Politica) scrisse nel 1839 un saggio, mai tradotto
in italiano, dal titolo “Des crises financières et de la
reforme du système monetaire”, nel quale spiegava
l’ineluttabilità periodica di crisi e scandali a seguito
delle speculazioni finanziarie di qualche avventuriero cui veniva
prestata troppo fede.
Le contaminazioni, peraltro indispensabili, tra il capitale produttivo
e il capitale finanziario nonché le ragioni che consentono
l’accumulazione del capitale ed avviano, quindi, lo sviluppo sono
state studiate e chiarite da fior di economisti come Hilferding,
come Joan Robinson, Rosa Luxembourg, Samir Amin, Paul Sweezy, Alexander
Gerschenkron, Piero Sraffa, Federico Caffè, Paolo Sylos-Labini e
non ultimo il nostro Nicola Zitara. Che il capitalismo italiano, ultimo
ad apparire sulla scena mondiale, non abbia un pedigree illustre oramai
lo ammettono anche gli storici più tradizionalisti e
sciovinisti, ma che sia un capitalismo straccione è questione
ancora non sufficientemente acclarata e diffusa.
Le banche, o meglio alcuni banchieri, hanno giocato un ruolo
decisivo nell’incoraggiare, nel favorire e nel determinare, con
mezzi leciti e con altri non propriamente ortodossi, gli indirizzi
produttivi di alcune aree dell’Italia a svantaggio di altre e, di
volta in volta, si sono appoggiati a questo o quel gruppo o partito al
potere senza tanti scrupoli pur di raggiungere un certo obiettivo o pur
di assicurare la presenza di una banca o di un organismo finanziario.
Come sia nata la Banca d’Italia e come la pensasse in
materia di sviluppo è cosa fin troppo nota per dover essere qui
anche solo riassunta.
Forse meno noto è il fatto che il
governatore Fazio, da sempre, con un certa coerenza, bisogna ammettere,
ha sostenuto le sue tesi in merito al controllo della
circolazione monetaria e di conseguenza in merito ai rapporti con le
banche commerciali. In un saggio del 1969 (pubblicato su “Moneta
e credito) intitolato “Base monetaria e controllo del credito in
Italia”, il dr. Fazio sostiene la tesi della regolazione del
mercato monetario attraverso strumenti esclusivamente
economico-finanziari senza far ricorso ad atti d’imperio di
natura giuridica, puntando, perciò, alla regolazione della
quantità di base monetaria.
Successivamente - 1970- 1971 -
l’ex Governatore elaborò insieme con Tommaso
Padoa-Schioppa e Paolo Savona un modello econometrico
dell’economia italiana che avrebbe dovuto, nelle intenzioni del
Gruppo di Studio della Banca d’Italia, non solo indirizzare
l’azione di programmazione, ma costruire una struttura per
la conoscenza qualitativa e quantitativa dell’intero
sistema economico italiano.
Le idee, si può dire, “tecnocratiche” del
Governatore erano note ed altrettanto noti erano i tentativi messi in
atto per realizzarle per cui ora menar scandalo per questa concezione
dell’economia appare ipocrita, specialmente da parte di coloro i
quali (il Governo attuale, la Confindustria, la Confagricoltura, il
F.M.I., etc.) a queste idee e a questi programmi si
attaccavano nei momenti di disperazione quando la crisi mordeva nel
vivo.
Le mirabolanti fusioni, incorporazioni e scalate dell’ultimo
decennio poi hanno abbagliato sia gli operatori finanziari sia la vasta
platea dei risparmiatori ai quali sono stati prospettati facili
guadagni in tempi così rapidi da non aver neppure il tempo di
depositare in banca i propri soldini, che questi già facevan
lucrare interessi fantasmagorici. Esattamente come, nel 1719, il signor
Law assicurava rendimenti del 120% alle azioni della Compagnie des
Indes.
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Le cronache dell’epoca dicono che, ogni giorno, a Parigi, in rue
de Quicampoix, si formava un assembramento di duchi, marchesi, conti,
baroni e gentiluomini vari, spesso accompagnati dalle loro consorti o
dai loro familiari, i quali attendevano come un messia John Law per
conoscere l’andamento delle azioni sottoscritte.
Per non mescolarsi alla plebaglia, fatta di mercanti, di artigiani, di
professionisti e di qualche nobiluccio di campagna,
“…presero in affitto appartamenti nelle case vicine, in
modo da poter essere sempre a contatto con il tempio del nuovo dio
Pluto da dove diffondeva, a piene mani e tanto facilmente, la
ricchezza”. (Charles Mackay “Memoirs of extraordinary
popular delusions”, Londra, 1815)
Può darsi che il Governatore Fazio quando, parlando delle
vicende Cirio, Parmalat e bond argentini, sosteneva che la gran parte
dei truffati fosse costituita da “signore impellicciate”,
pensasse a questo famoso e storico scandalo agli albori del
capitalismo! Del resto, la storia si ripete.
Il risvolto di questo periodo di euforia finanziaria, per quel che ci
riguarda da vicino, è rappresentato dall’annientamento di
quel poco che rimaneva del sistema bancario meridionale, costituito
dalla presenza delle Banche Popolari. Prima delle fusioni, operava una
“Popolare” a Polistena, una a Palmi ed una a Reggio
Calabria; a Taurianova c’era la Banca Agricola e c’era la
Popolare di Crotone, adesso tutte mangiate dai nuovi colossi nordici.
Che fine abbia fatto la ex Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania
- oggi Banca CARIME - è fin troppo risaputo;
rimangono solo le Banche di Credito Cooperativo - le ex Casse Rurali ed
Artigiane - e, in particolare, quella di Cittanova; salvata, rafforzata
ed ampliata - onore al merito - grazie all’impegno ed alla
testardaggine del suo presidente Giulio Casentino, il quale (riconosco
il mio errore) in materia aveva visto più lontano di tutti.
La vera novità di questo scandalo è, però,
rappresentata dal coinvolgimento del settore cooperativo, nella specie
dal tentativo di scalata operato dalla UNIPOL nei confronti della Banca
Nazionale del Lavoro - B.N.L. Diciamolo subito: è
un’anomalia, è un controsenso, è una
contraddizione, ma non tanto per i metodi adoperati, poco puliti ed
illegali, quanto per il fatto che, così facendo, la cooperazione
rinnega se stessa e compie una mutazione genetica che la trasforma in
un altro e diverso soggetto.
Le cooperative, a cominciare da quella gloriosa dei “Rochdale
Pioneer’s Equitable Society” del 1844, rappresentano
un’alternativa al modo di produzione capitalistico, sono
“il terzo settore”, sono antagoniste, sono differenti. Il
loro principio-guida si chiama “mutualità” ed il
loro scopo non è il lucro, il guadagno, il profitto bensì
il reciproco aiuto tra i soci, l’assistenza ai più
svantaggiati, il sostegno ai propri associati per quel che concerne il
lavoro, il consumo, la casa, la previdenza, il credito. La cooperazione
di credito è nata con un preciso scopo: combattere
l’usura, “…snidare con la più santa delle
concorrenze questa nemica dei probi, ma disagiati lavoratori dove
più sordida e tenace s’appiatta, ravvivare le languenti
industrie dei piccoli coltivatori, assicurare loro il sostegno del
capitale onde difettano…” (Leone Wollemborg)
Per questo sono nate le Casse rurali e non per caso sono nate negli
ambienti cattolici ed ecclesiastici; così come è
avvenuto, per esempio, a Cosenza o a Cittanova.
La verità è che il movimento comunista, Marx per primo,
non ha mai amato la cooperazione, l’ha tollerata, l’ha
usata, l’ha propagandata quando bisognava contrapporre un modello
alternativo reale, ma ha sempre cercato di mantenerla ai margini del
sistema produttivo. La crescita e l’espansione in alcuni settori
(edilizia, supermercati, assicurazioni) hanno subito messo in
evidenza le latenti contraddizioni insite in questo tipo di
organizzazione imprenditoriale.
Se t’ingrandisci ed entri in concorrenza con
l’imprenditoria capitalistica è inevitabile che devi
affrontare lo scontro sul terreno del capitalismo e, a questo punto, o
ti omologhi o soccombi o … rientri nei ranghi.
In altri termini: le Banche Popolari si sono omologate, le Casse
Rurali, opportunamente trasformate in Banche di credito cooperativo,
sono rientrate nel loro ambito ottenendo qualcosina in più
rispetto al passato; delle “mutue assicuratrici” non si sa
che fare anche perché, nel frattempo, sono diventate - vedi
UNIPOL - troppo forti, troppo presenti e troppo potenti.
Tuttavia una cooperativa che si quota in Borsa o che controlla, in
tutto o in parte, una società per azioni o una s.r.l. o che
tenta una “scalata” nei confronti di una grande banca, sia
pure appartenente al mondo del lavoro, diventa un ibrido ed appare come
un mostro alieno che sta invadendo un territorio non suo.
Se la cooperazione è diventata qualcosa di diverso rispetto alle
sue radici bisogna avere il coraggio di ammetterlo e di dichiararlo
apertamente per non illudere ed ingannare migliaia di lavoratori e
milioni di consumatori, di clienti e di utenti. Se “la mia banca
è differente” voglio sapere in che cosa differisce,
altrimenti vale sempre quanto diceva Berthold Brecht: “Tra chi
fonda una banca e chi, mitra in pugno, la svaligia, il bandito è
il primo e non il secondo”.
I poeti, si sa, sono folli, ma spesso sono più lucidi di tutti noi.
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