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a disposizione degli amici e dei naviganti della rete le tre
lettere di Pasquale Villari - patriota napoletano - apparse su La
Perseveranza di Milano fra il 5 e il 30 settembre 1861
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Ieri e ieri l'altro sono giunte nuove forze dall'Alta Italia. Si dice che vadano a dare il cambio a quei soldati che già da tre mesi menano una vita piena di pericoli e disagi, e sono condannati ad un'opera utile e necessaria, ma certo la più ingrata che potesse mai toccare al cuore generoso del soldato italiano.
Per un momento abbiamo visto la città piena d'uniformi, il giorno appresso erano scomparsi; ognuno era già andato al luogo destinato. Ma nell'eseguire questo scambio vi sarà un momento, in cui i due contingenti si troveranno contemporaneamente nelle province meridionali, e quello servirà ad un tempo per dare l'ultimo crollo al brigantaggio e porre in atto la coscrizione. Voi vedete che il generale Cialdini non se ne resta inoperoso; e il suo nome è assai popolare fra di noi, la sua severità è giudicata da tutti necessaria; nelle province, tutti ripetono che l'ordine di ristabilisce rapidamente.
Ma se io vi dicessi che tutti sono contenti, io v'ingannerei. Il disordine amministrativo ha portato un ristagno ed una confusione grandissima negli affari. Coll’accentramento, che progredisce ogni giorno, questi affari dipendono sempre più da Torino; ed il governo centrale, per se stesso non molto rapido e ordinato, non può operare con prontezza ed energia, a cagione degli estesi poteri del Cialdini, che non è uomo da tollerare impacci alla sua volontà.
Noi certo non siamo in condizioni normali, ed è assai desiderabile che queste province comincino una volta a gustare i frutti del buon governo e della libertà. Il ministro Peruzzi si adopera a tutt'uomo per darci i lavori pubblici, che son cose per noi di prima necessità; ma finora ancora si può dire che non abbiam fatto nulla. La città e le provincie sono sempre nelle stesse condizioni.
Procede con qualche alacrità il lavoro per la divisione dei beni demaniali. Sono andate già da più tempo delle commissioni di magistrati, i quali hanno dato opera al lavoro. Le usurpazioni a danno del popolo erano state scandalose. Si temeva che i contadini non avrebbero avuto la pazienza di attendere l'onesta ripartizione e che avrebbero voluto fare una giustizia con le proprie mani: ma le cose finora procedono tranquillamente. Il popolo ne riceverà qualche sollievo, ma sarà minore dell'aspettativa. La povertà li opprime, e quando essi avranno nelle mani un fondo, che i più non potranno coltivare, e pel quale debbono anche pagare un piccolo canone, lo venderanno ai più ricchi e la proprietà ripartita sarà di nuovo cumulatat uso che la legge loro vieta; ma l'astuzia degli avvocati li aiuterà a trovare il modo d'evaderla.
La cosa veramente indispensabile alle nostre provincie sono le strade, le opere pubbliche. Potreste mai credere che Potenza, città capitale di una delle più vaste e popolose provincie, ha solo 15.000 abitanti, una sola strada in cui le acque siano incanalate e che sia ricoperta di lastre? Il grandissimo numero delle case non ha recessi d'immondizie, e quindi potete immaginarvi in che condizione si trovino le strade. Se questo avviene a Potenza, che cosa deve seguire nelle minori città?
Ma ora, tornando a Napoli, debbo dirvi che ieri e ieri l'altro si continuava a ragionar sempre della destituzione dell'avvocato Tofano, consigliere di Corte suprema, in missione di presidente della Corte criminale. Molte sono le dicerie su questo fatto, e la lettera del Tofano, con cui chiede la pubblicazione del rapporto, che precede il decreto, non ha fatto buona impressione. E’ una calma eccessiva, troppo grande per essere vera.
Che il Tofano fosse uomo leggero, facile a parlare e a dire quello che era meglio tacere, tutti sapevano. Che non andasse a verso a molti è vero, e che avesse,mandato troppo per le lunghe il processo Cajanello è cosa che anche s'è detto. Ma tra questo e l'avere una condanna, che per un uomo di onore equivale ad una condanna di morte, c'è un abisso. Questa condanna si poteva dare senza giudizio? Qualunque fosse la colpa del Tofano, era giusto colpirlo senza prima ascoltarlo? Non poteva il governo di Torino mostrargli le carte che ha trovate, e che sono tanto a suo carico (come si dice), per udirne una risposta? Il colpire a questo modo un uomo, noto nell'emigrazione, e che aveva una delle prime cariche nella magistratura, non è porre una macchia sul partito liberale e sulla magistratura?
Questo dicono alcuni. Altri rispondono che il governo ha avuto in mano lettere del Canofari, ministro di Napoli a Torino, che rivelano i fatti d'una gravità tale che non poteva permettere alcun indugio. Si dice che queste relazioni col Canofari continuassero fino alla campagna nelle Marche; e che di più si trovi anche una lettera del Tofano a Ferdinando II, nella quale domanda di ritornare a Napoli, con termini tutt'altro che dignitosi, a molti non era piaciuto.
Dicesi che il figlio di Cajanello, non avendo potuto indurre il Tofano ad assolvere il padre, avesse per vendetta rivelato l'esistenza delle carte, di cui aveva notizia, essendo stato nella diplomazia.
Intanto il Popolo d'Italia grida che tutto quello che si è fatto non basta, che ci vogliono altre destituzioni, e la pubblica voce, esagerando, dice che v'è una lista di altri quarantadue magistrati da rimandare a casa. Ora potete capire che, fino a quando dura un tale stato di cose, non si può dir veramente che magistratura vi sia. Potranno coloro che hanno quest'incubo sul capo esser affatto severi ed affatto imparziali nei loro giudizii? Io non voglio entrare nelle intenzioni del governo; ma se è necessario il farlo, che almeno si faccia presto, per togliere il paese da quella continua febbre che lo travaglia, lo sfibra, lo lacera.
In questo momento lo scontento maggiore è fra quelli che sono chiamati della consorteria, in gran parte gente distintissima, che ha vissuto in esilio. Voi potete accorgervene dal Nazionale, che ha cominciato a fare opposizione piuttosto vivace al governo, il quale ha già ricusato le copie che prendeva finora. Il nuovo giornale che voleva farsi, La Patria, doveva anch'esso rappresentare il medesimo gruppo che, trovandosi in una nuova posizione vorrebbe un giornale, il quale non avesse un passato, che a Certo è che la consorteria si trova fuori d'azione. Cialdini, vedendo la impopolarità in cui, a torto o a diritto, molti di essi erano caduti, ha pensato meglio appoggiarsi un poco più a quel partito che alcuni chiamano garibaldino, altri d'azione, e le nomine di Fabrizi, Tripoti, Motina, ecc., lo provano abbastanza.
Costoro, senza dubbio, son gente più attiva dei consorti o degli esuli, e per aiutare a distruggere la reazione e il brigantaggio saranno più efficaci. Ma saranno essi buoni impiegati e buoni amministratori? Potranno forse mettere il governo in nuovi pericoli, quando sarà pacificato il paese? Per ora abbiamo i moderati del Nazionale scontenti; ma i loro lamenti son sempre deboli e sottovoce. Invece v'è una massa di gente che approva, e che trova in questi fatti una compiacenza che non nasconde. Ma vorrei che il Cialdini non s'illudesse per ciò. Fra noi chiunque sale al potere diventa impopolare. La consorteria fu odiata, principalmente, perché potente. La massa del paese non parteggia né per questi, né per quelli.
Il partito d'azione, poi, non si può dire che sia veramente un partito fra noi: la sua popolarità nasceva dall'odio alla consorteria e dal nome di Garibaldi. Il popolo non chiede altro che giustizia, buona , amministrazione ed ordine. Il medio ceto di certo non parteggia per coloro che, se riuscissero veramente ad afferrate il potere, si troverebbero d'essere una consorteria più attiva, ma più incapace e meno numerosa dell'altra. In ogni modo, consorteria o no, partito dell'ordine o partito d'azione, tutti convengono in una cosa: che Cialdini adesso è un uomo necessario e che ha preso il verso per pacificare il paese.
Napoli, 1 settembre 1861
Io debbo notarvi un visibile miglioramento nello spirito pubblico di queste provincie. Se altro segno non avessimo avuto che la festa di Garibaldi e quella di Piedigrotta, già sarebbe abbastanza. Popolo, governo, guardia nazionale, municipio hanno gareggiato in attività, ordine, entusiasmo. La guardia nazionale di Napoli è stata davvero ammirabile, instancabile nell'adempiere il suo dovere.
Chi ha veduto con quanta semplicità e prestezza, con quanto gusto e splendore, e con una spesa infinitamente inferiore a quella delle feste del passato anno, che il municipio condusse così male; chi ha veduto tutto questo, s'è potuto persuadere che v'è un grande miglioramento nel municipio, nel suoi architetti, nei suoi impiegati. Chi ha poi visto il popolo, e ha letto i ragguagli delle provincie, s'è potuto confermare che l'opinione pubblica e la pubblica amministrazione hanno sempre migliorato.
Queste feste però non sono l'unico segno che mi fa credere la pubblica opinione migliorata, e la fiducia nel governo cresciuta. Io lo attingo dai discorsi che sento ogni giorno per le vie, nelle case, dal popolo minuto, dalla gente culta, dai ricchi. Alcuni mesi sono, prima della venuta del Cialdini, qui la reazione era divenuta baldanzosa in modo che andava a testa alta, e non si vergognava, né temeva di parlar chiaro.
Più tardi s'è cominciata a sgomentare; ma la venuta di molti impiegati dell'alta Italia, i quali, bisogna confessarlo, venivano con soldi e con indennità maggiori di quelli che avevano i napoletani chiamati fuori, faceva gridare contro al piemontizzare. Aggiungete che una parte della stampa, specialmente moderata, ha tanto gridato contro i vizi del popolo napoletano, che questi impiegati venivano pieni di sospetti e di paure, si tenevano lontani dal popolo, lo trattavano con poca deferenza, e perciò v'era una irritazione, vi assicuro, grandissima. I napoletani sono espansivi ed affettuosi, nulla più li irrita e li stizzisce che vedersi corrispondere con freddo contegno alle loro eccessive espansioni e soverchia familiarità.
Ma a me è avvenuto discorrere con alcuni piemontesi e lombardi (questi ultimi assai più facilmente s'avvicinano ai napoletani); e quando essi erano a Napoli da qualche mese, mi dicevano: In verità noi non vediamo poi tutta questa corruzione di cui ci hanno parlato. Pareva che dovessimo venire in un altro mondo; ma, in fin dei conti, noi diciamo il vero, noi troviamo qui un popolo buono, docile, affettuoso, chiamato ingovernabile e che è governabilissimo. Questi discorsi mi teneva fra gli altri un tale, ch'io sapeva essere stato appunto un corrispondente di giornali, che più si mostravano feroci contro i napoletani. Avevo letto i suoi articoli pieni d'accuse, sapevo che era uomo da non dire quello che non pensava; e questo mutamento che osservavo in lui era sincero e l'ho veduto ancora in molti altri.
Così è avvenuto che comincia a nascere una certa vicendevole fiducia, e questa dà luogo alla simpatia ed all'amicizia, e comincia un poco a calmarsi quella misera irritazione, in cui i giornali del partito d'azione soffiavano instancabilmente.
Essi, bisogna dire il vero, hanno fatto prova di molta accortezza; e sono riusciti ad acquistare molto ascendente sul popolo più monarchico della terra, sopra un popolo che non sogna neppure dove questi giornali lo vorrebbero condurre. IL un fatto positivo che i giornali dell'opposizione si vendono assai più dei governativi, è un fatto che qui l'estrema destra è, per dir poco, antipatica. Io lo dico con dolore, ma bisogna pur dire la verità: le dimostrazioni, che ebbero luogo contro alcuni deputati e senatori non furono punto disapprovate dal pubblico. Ve lo prova anche la lettera di Cialdini diretta ad alcuni di quei medesimi deputati e senatori.
Ora se voi mi chiedete da che nasce tutto questo, io vi dirò che v'ingannate assai se credete che ne sia causa la loro affezione al governo o all'unità italiana. La cagione è un'altra. lo son ben lungi dallo scusare le intemperanze napoletane; ma debbo confessarvi che le cagioni con le quali hanno traviato queste moltitudini non sono così vergognose come paiono a molti. Con molto piacere ho dovuto osservare che i napoletani sono assai affezionati al loro paese; essi vogliono l'Italia, ma non credono (e hanno ragione) che Italia voglia dire umiliazione di Napoli; essi-vogliono che l'Italia sia tutto, ma che Napoli resti qualche cosa.
Ora noi dobbiamo convenire che, mentre la stampa moderata ha-messo a nudo, ha esagerato le piaghe di questo paese, qualche volta lo ha anche calunniato; mentre questo faceva la stampa moderata, quella del partito d'azione, sia per convinzione, sia per opposizione, ha sempre difeso questo popolo. Se v'è da notare qualche atto generoso, se v'è da respingere una ingiusta accusa, se v'è da dire una parola d'incoraggiamento ai napoletani, certo voi la trovate assai più facilmente nel Popolo d'Italia e nel Diritto, che nel Nazionale. Queste cose hanno fatto una grande impressione sui napoletani, essi l’hanno profondamente sentito, e bisognerebbe che la stampa moderata ne tenesse conto.
Certo bisogna rispettare il carattere di deputato come sacro e inviolabile. Ma io domando: R egli vero che alcuni di essi hanno umiliato il paese coi loro inopportuni lamenti? Non abbiamo noi udito qualche volta un rappresentante del popolo gridare nel parlamento presso a poco cos -Dateci pane e morale? A queste parole io vidi a Torino molti piemontesi fremere di sdegno; è egli strano che i napoletani abbiano concepita una grande antipatia per coloro che tennero alla tribuna o nei giornali un tale linguaggio? Credete voi che qui si giudichi Ricciardi diversamente da quello che lo giudicano tutti: onestissimo e stranissimo? Credete che gli applausi da lui riscossi fossero diretti alle sue stranezze e al suo partito?
Non già, si applaudiva in lui un uomo che volle generosamente protestare contro alcune parole che troppo umiliavano il nostro paese, parole che tendevano a porre diffidenza invece di fiducia fra tutti gli italiani. Voi potete dissentire dalle mie opinioni; ma io credo d'essere un interprete fedele delle opinioni napoletane.
Che poi il popolo, trascorrendo, sia andato in eccessi riprovevoli, che abbia commesso atti indegni verso uomini per ogni.lato rispettabili, chi lo può scusare? Ma questo vi spiega come mai qui è nata una confusione di lingue, e perché voi vedete così spesso uomini moderatissimi parteggiare con gli uomini che si dicono del partito &azione.
Inoltre qui v'è stata per un tempo una spaventosa furia di distruggere senza riedificare: e quel che è peggio non è ancora finito. Pareva che si volesse levar tutto a Napoli. Oggi per esempio, noi abbiamo sciolta a riordinarla; chiuso l'Accademia delle scienze, senza che ancora si pensi l'Istituto di Belle Arti, mentre si pagano tutti i professori; per l'istruzione secondaria, in una città di 500.000 anime, non abbiamo che un liceo di circa 60 o 70 alunni, e questo con un ministro della pubblica istruzione napoletano intelligente e pieno di buon volere. Voi potete da ciò immaginare quello che s'è fatto nel resto. La colpa non è certo dell'abile ministro, ma nell'andamento generale delle cose.
Che vi può dire quello che oggi avviene nella magistratura? Io non voglio entrare nei particolari, non voglio nominare alcuni magistrati destituiti, tenuti generalmente uomini onesti e capaci non solo, ma che furono certo fra quelli che si adoperarono molto, nelle condanne politiche, a salvare la vita a più d'uno fra i quali lo stesso Pironti. Ma sia pure che la magistratura deva essere tutta mutata, sia pure che chiunque ha preso parte nei processi politici, o ha firmato la petizione per togliere la costituzione debba essere destituito. Sia pure.
lo vi domando questo: sono quindici giorni che si parla seriamente di una lista d'altri 42 magistrati da destituire, e si aspetta sempre. Ieri l'altro camminavo per Napoli, ed incontrai un amico, un uomo dei più onesti, dei più probi che abbia mai conosciuti in vita mia, un emigrato che non ha impiego, ma fa l'avvocato. L'incontrai per via, e pareva oppresso da qualche recente sventura. "Che hai? " gli diss'io. " Cosa vuoi vengo dal tribunale, ove difendevo una causa, ed il procurator generale s'è accostato a me col cappello in mano, e quasi piangendo mi si raccomandava. Egli ha sette figli, nessun bene di fortuna, ed è minacciato d'esser nella nota dei 42. lo ti domando: Fino a che duriamo in questo stato, potremo noi avere amministrazione della giustizia? Che facciano una volta quel debbono fare, e smettano di travagliare questo misero paese di mutatazione in mutazione”.
In verità, noi abbiamo mille volte letto, nei giornali esteri, che le condizioni presenti delle provincie meridionali sono una prova che esse erano poco mature all'unità nazionale, che esse non comprendono e non vogliono l'Italia. Ma se quegli scrittori avessero avuto la bontà di venire qui a studiare il paese, e se avessero visto quanti errori si sono commessi dai governanti; se avessero - visto in che modo queste popolazioni sono ignoranti, che non vedono oltre il presente, che non possono indovinare i futuri beneficii del governo italiano; se avessero visto in che modo sono state travagliate, sconquassate, lacere da una serie continua di mali inevitabili sì, ma pur gravissimi, venuti dalla rivoluzione in poi; se avessero visto che sperpero del pubblico erario, che miseria, che fame li ha travagliati; quanti luogotenenti, governatori, generali si sono mutati, quante, dirò ancora, forme di governo abbiamo avute in un anno solo senza che ancora abbiamo finito; se tutto questo avessero veduto, e fossero poi andati nei più umili tugurii, ove per la prima volta in vita sua, il lazzaro napoletano canta canzoni italiane in lode dell'unità d'Italia; e se avessero un bel giorno interrogato tutto questo popolo come s'è fatto il 7 settembre, e per tutta risposta avessero udito, come abbiamo udito noi, un grido unanime: Italia e Vittorio Emanuele, a Roma, a Roma; forse che allora le conclusioni di codesti giornali sarebbero alquanto diverse.
Per ora pongo fine a questa lettera, già lunga. In altra mia cercherò d'esaminare più da vicino le cagioni dello scontento, che ancora non è cessato.
Napoli, 13 settembre 1861.
Le cagioni del continuo scontento nelle provincie napoletane sono molte e diverse; ma si possono ridurre principalmente sotto due capi: cagioni che vengono di fuori, cagioni che muovono dalle condizioni interne delle provincie stesse.
Se ci venisse chiesto quale era il carattere principale del passato regime borbonico? Noi diremmo: il governo, anzi il Re deve fare e volere tutto, il popolo non deve fare e non deve voler nulla, se non per mezzo del braccio e della volontà del governo. Se poi ci si chiedesse: quale è il carattere più notevole in questo popolo, dopo che il regime borbonico è caduto noi diremmo: la mancanza di fiducia in se stesso, la mancanza di una opinione pubblica ben determinata.
Il governo che, uscendo dalla rivoluzione, veniva a governare queste provincie, doveva assumere l'indirizzo di tutta la cosa pubblica; giacché sperare che un popolo, il quale s'era abituato a credere che il governo era tutto, potesse, persuadersi che il popolo è tutto, che esso deve provvedere a se stesso, era per lo meno strano. Questa è la cagione per cui tante di quelle leggi, di quei provvedimenti utili a Torino, a Milano, a Firenze, sono riusciti non solo inutili, ma funesti a Napoli. Questa è la ragione per cui tanti di quegli uomini, che erano così felicemente riusciti nell'alta Italia, vi sono fra di noi logorati in ventiquattr'ore.
Ma di ciò non bisogna muover grave accusa al governo, giacché il reggere, non dirò con ordini, ma con modi liberi queste provincie, è cosa d'una difficoltà spaventevole, ancora quando il governo si fosse deciso ad assumere l'indirizzo d'ogni cosa.
La difficoltà vera non sta nella intemperanza, nella rozzezza, e nella poca morale, tanto predicata; ma sta appunto in quella mancanza di pubblica opinione, di cui abbiamo parlato. Questa immensa città di Napoli (e com'essa è, così le provincie) non forma per così dire un corpo solo. Essa è frazionata in mille gruppi, che hanno pochissimi rapporti fra loro, che non si vedono, non si conoscono, e, se si conoscono, son fra di loro gelosi come le antiche corporazioni. Gli abitanti d'un quartiere vivono diversamente da quelli d'un altro, e un popolano di Monte Calvario si distingue uno di Porto o Mercato dal modo suo di vestire. Così non vi sono partiti politici, ma piuttosto gruppi o, per dir la parola consorterie. Nella gran massa è penetrata l'idea d'Italia, v'è un amore frenetico per Garibaldi: essa non chiede altro che tranquillità e giustizia, ma d'altro non si cura.
Ogni volta che è giunto un nuovo luogotenente, esso veniva sempre con le migliori intenzioni del mondo; voleva contentare il paese. Ma qui è stata sempre la difficoltà. Si è detto: dunque il paese è incontentabile. Ma non è precisamente così. Appena veniva, il nuovo luogotenente incerto, dubbioso, diffidente per le tante cose udite o lette, pei tanti naufragi che lo avevano preceduto, cercava con scrupolosa coscienza esaminare quali erano i veri bisogni, i veri desiderii del paese. Ma come fare a saperlo? Qui non vi sono nomi conosciuti e stimati nella universalità, non solo di tutte le provincie, ma neppure della stessa città di Napoli.
Vi sono molti uomini, probi, onesti, capaci: ma conosciuti solo nella loro consorteria. che li eleva alle stelle; mentre forse un'altra consorteria, senza conoscerli abbastanza, li disprezza e li accusa. Ne seguiva quindi che, non appena il caso, o una conoscenza personale, o informazioni ricevute a Torino ponevano il luogotenente in rapporto con alcuni di questi uomini, essi menavano seco quelli che più stimavano, cioè i loro amici, e non appena li avevano presentati tutti, cercavano chiudere il cerchio ed evitarne studiosamente l'ingerenza di altri. Questa non era malafede, ma è l'indole di tutte quante le consorterie del mondo. Qui il nome di consorteria si dà per antonomasia a quella della luogotenenza Farini, quasi tutti emigrati; ma si fa loro un torto, perché se essi girarono gl'impieghi fra i loro amici, lo stesso hanno fatto gli altri; e ripeto, era quasi una necessità portata dalla condizione stessa delle cose.
Quando adunque, questo cerchio di amici si era chiuso, cominciava lo scontento; gli altri uomini politici, che si vedevano messi da parte, gridavano; gli errori della consorteria cominciavano, ed allora il pubblico si univa ai gridatori, e si formava un'apparenza di opinione pubblica, che gridava la croce addosso ai governanti. Il luogotenente era richiamato, ne veniva un altro, che si affidava ad altri; ecco subito una seconda consorteria, coi medesimi errori, e le stesse conseguenze.
Perché cessi questo stato di cose, ci vuole del tempo: noi manchiamo non solo di strade ferrate e di strade comunali, ma nella città stessa l'andare da un quartiere all'altro è qualche volta un'impresa. La libera stampa, e soprattutto le riunioni dei consigli comunali e provinciali gioveranno moltissimo.
lo già posso assicurarvi che, a chi sa bene osservare, e non si lascia ingannare dalle prime apparenze, v'è un progresso infinito. Ma ci vuol tempo.
San Martino fu il primo luogotenente che s'accorgesse di questo stato di cose; egli volle vedere e ricevere tutti ugualmente. Questo lo rese subito l'uomo più popolare di Napoli. Ma egli era forse venuto troppo presto, e, amico della legalità in tempi anormali, fece sì che la reazione alzasse la testa. Ma lasciamo l'esame di un fatto che qui è fuori luogo. Se noi vogliamo avere una conferma di quello che abbiamo detto, dobbiamo osservare ciò che avviene adesso.
Cialdini è fra di noi assai popolare, egli ci ha salvato sul Volturno, a Gaeta, ora ci ha salvato dal brigantaggio. I nostri obblighi sono infiniti, il popolo li sente, ed ha grande simpatia pel cavalleresco generale. Pure vi sono molti che gridano, e sono scontenti, e sparlano del presente modo di governare. Chi sono, cosa vogliono, perché gridano?
Non appena il generale è venuto a Napoli, egli s'è avveduto di quella simpatia che la massa aveva per il partito esaltato, senza averne le opinioni.
Egli vide che molti erano irritati contro parecchi deputati e senatori della destra, perché credevano che essi non avevano saputo difendere nel Parlamento la dignità del loro paese. Per queste ragioni il partito moderato, che di sua natura non è molto operoso ed ardito, si trovava assai indebolito; mentre che la reazione alzava audacemente la testa.
Fu per queste ragioni che Cialdini pensò valersi del partito d'azione e del nome di Giuseppe Garibaldi, che ha tra di noi una portentosa popolarità. Ma cosa è mai avvenuto? Non appena Nicotera e i suoi furono bene accolti dal generale, non appena qualcuno di loro fu favorito ed impiegato, che anch'essi si sono accorti di essere una consorteria. E' un fatto che, mentre a parecchi del partito d'azione s'apre la porta del palazzo di luogotenenza, essa è chiusa a molti della maggioranza parlamentare. La lettera del generale ai signori Pisanelli, Vacca, Niutta e Bonghi può darvene una prova. E' naturale perciò che alcuni gridino, si lamentino, si scandalizzino.
Quello che è peggio, non sono neppure compatiti; gli allontana il governo, e molti troppo ingiustamente li accusano.
Ma ciò che vi dimostra il gran progresso del paese, è appunto il poco interesse che si piglia a queste lotte di amor propri offesi. Il paese si avvede che non è col partito d'azione, che non è neppure con la consorteria dei moderati, e nondimeno è col governo. E invero Cialdini non si lascia poi gran parte dominare, sa quel che vuole, e va dove vuole. Tutto quello che ho detto finora vi spiega i fatti di certi clamori esagerati che sembrano annunziare la fine del mondo, mentre poi non ci siamo tanto vicini.
Ma se voi mi chiedete: al di sotto di questi clamori esagerati v'è una cagione vera di scontento e di malessere generale, oltre le conseguenze inevitabili dei mutamenti di governo e delle rivoluzioni? Allora io sarò costretto parlarvi di quelle cagioni di malcontento che partono dal governo. E quelle si possono ridurre a due.
1) Il governo ha avuto pochissima iniziativa, non ha compreso che bisognava, fin dal principio, assumere per qualche tempo l'indirizzo di ogni cosa, di ogni attività. Ha cominciato col credere questo paese simile affatto al resto d'Italia, ha preso delle misure che riuscirono dannosissime, come, per esempio, l'abolizione immediata di molti dazii, il rispetto ad una legalità troppo esagerata, il tenere in impiego un gran numero di borbonici, ecc.
E' poi venuto, per reazione, ad altro eccesso; e s'è dimostrata una diffidenza strana verso i napoletani. Non solo si è creduto ma s'è anche avuto la poca accortezza di ripetere ogni ora che il Piemonte doveva moralizzare i napoletani, coll’infonder loro il rispetto di loro stessi. Invero, se ciò si doveva e si voleva fare, bisognava cominciare col rispettare, col dimostrare fiducia. Non s'è fatto. Io posso assicurarvi che nei ministeri sono avvenute scene, per lo meno, indecorose. Sul principio s'è avuto forse troppo riguardo alle pretensioni napoletane: s'è finito poi col non averne alcuno. S'è distrutto, e non s'è mai edificato.
Voi fra poco sentirete una crisi commerciale. Moltissime fabbriche, che hanno tirato innanzi finora, sospenderanno i loro lavori per mancanza di commissioni. Speriamo che il municipio darà presto mano ai suoi lavori, e che le vie ferrate ci porteranno qualche aiuto.
2) La seconda serie d'errori governativi potrebbe dar materia ad una lunga dissertazione, che sarebbe inutile, perché sono quei medesimi errori che, in proporzioni infinitamente più piccole, avvengono, ove più, ove meno, in tutta l'Italia. Voglio dire il disordine amministrativo. Qui non v'è quasi impiegato che conosca le sue attribuzioni. I consiglieri di luogotenenza si lamentano di avere le mani legate, di non sapere quel che possono e quel che non possono. Il governo centrale grida che oltrapassano i loro poteri. Per ogni affare vi mandano da Erode a Pilato, e finalmente siete costretto andare a Torino, dove vi dicono che spetta al governo locale. In questo modo il governo si discredita, perché apparisce come poco serio agli occhi della moltitudine, e i suoi stessi funzionari sono sfiduciati e lo criticano. Ogni giorno incontrate, per via, gente incaricata di missioni indefinibili, incomprensibili. Ogni giorno si sente il nome di nuovi impiegati e di nuovi impieghi.
Andando di questo passo, le pensioni finiranno col mangiarsi le rendite dello Stato. Il ristagno degli affari è portentoso. L'altro giorno la cassa non pagava i vaglia postali; parecchi impiegati non hanno ricevuto i loro soldi, per mancanza di denaro sebbene avessimo ancora più milioni di moneta coniabile, che però non si conia.
Nondimeno, credete ad un osservatore imparziale, il progresso che si trova al disotto di sì gran disordine è grandissimo, e cresce ogni giorno. Per queste ragioni mi duole assai di sentire che siamo alla vigilia di nuovi cambiamenti. Tra Cialdini e il governo centrale non pare vi sia perfetto accordo, e la conseguenza di ciò dicesi che sarà una più pronta cessazione delle luogotenenze.
Vorrei che misure politiche di tanta importanza non si pigliassero in conseguenza di mali umori. A quest'ora avrete letta la lettera del Cialdini al municipio di Napoli. Non ha fatto a tutti una bella impressione. Il municipio ha lavorato con molto zelo, è riuscito nell'operazione di un prestito, del quale il paese s'era mostrato prontissimo a concorrere.
Se il consiglio provinciale ha messo inopportuni ostacoli, non era colpa del municipio. Molte delle cose che il generale consiglia erano già fatte. E se, a proposito degl'indirizzi al Re, ed allo stesso Cialdini si sono perduti in questioni di lingua, e hanno voluto discutere se bisognava dire guardie da fuoco, o vigili, o pompieri, come si diceva fra noi, non era poi da farne gran caso. Ma io credo che lo scopo vero di quella lettera, sia stato piuttosto un rimprovero al consiglio provinciale. Del municipio finora dobbiamo lodare lo zelo, l'attività e la pratica degli affari.
Napoli, 14 settembre 1861
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