1) MELFI E LE METAMORFOSI DELLA CONDIZIONE MERIDIONALE
Rileggere l'Autobiografia di Carmine Crocco, capo leggendario del
brigantaggio lucano post-unitario, a più di trent'anni dalla
celebrazione per l'Unità d'Italia, consumatasi in un clima
euforico e retorico, non significa solo ricollocarla in una luce
diversa e più attuale, ma anche riproporla come documento
contraddittorio e tipico di una condizione meridionale, ancor oggi
sospesa tra un rivendicazionismo, sia pur dotto, ed un secessionismo di
bassa lega.
Ripubblicata nel 1964 dall'Editore Lacaita, nella collana “Briganti e
Galantuomini”, a cura di T. Pedio, l'autobiografia di C. Crocco si
presentava ai lettori quale testimonianza di una lotta sociale perduta
contro padroni vecchi e nuovi, pronti a riciclarsi come dirigenti della
futura classe politica nazionale.
L'iniziativa editoriale marcava una decisa intenzione di rivelare gli
aspetti poco noti di un processo unitario, che registrava
l'emarginazione, anch'essa violenta, di una parte cospicua della
popolazione meridionale dai benefici di uno Stato unificato e
nazionale.
Il paesaggio naturale che ha fatto da sfondo all'intera vicenda, e
cioè la zona di Melfi, territorio strategico per i movimenti
militari della banda di C. Crocco e per l'offensiva dell'esercito
sabaudo, può, alla luce di quanto è accaduto prima e
dopo, costituire un'espressione emblematica della metamorfosi subita da
alcune realtà meridionali dal Medioevo ad oggi.
Alla vigilia delle celebrazioni fridericiane, per ricordare la nascita
del grande sovrano di casa sveva, non è di poco conto immaginare
un'ipotesi di confronto tra il passato e il presente di Melfi e dei suo
circondano.
Il castello di Federico II è ancora oggi il simbolo fisico di un
luogo storico nel quale, nel lontano 1231, giuristi provenienti dalle
migliori scuole dei momento, hanno redatto il testo di quelle
Costituzioni melfitane che hanno anticipato una visione ed una pratica
dello Stato laico nei confronti di feudalesimi politici ed
ecclesiastici.
Tra le novità vanno sottolineate non solo l'avvio di una
distinzione tra i due poteri, il che poteva riempire d'entusiasmo laico
il nostro Gabriele Pepe, ma anche quegli articoli della Costituzione
melfitana scritti a difesa, tra l'altro, delle donne meretrici e
dell'ambiente, prevedendo punizioni esemplari per i responsabili di
scarichi abusivi, nei fiumi, di cascami delle pelli lavorate
artigianalmente.
Certo con l'appressarsi del centenario l'analisi storica sembra
riaprire i termini della riflessione, politica oltre che storiografica,
per ridiscutere il ruolo di Federico II nello sviluppo successivo del
Mezzogiorno.
A buttare la pietra nello stagno è stato l'americano R. Putnam,
gran conoscitore del sistema politico locale del nostro paese, autore
di comparazioni istituzionali tra diverse esperienze regionali. Per lo
studioso di Harvard non vi sono dubbi: la politica di Federico II non
è stata del tutto positiva per il futuro del Sud, perchè
pregiudizialmente vincolata ad un obiettivo di autarchia e di
separazione nei confronti dei Comuni del nord, che, già da par
loro, avevano avviato una rete di collegamenti commerciali, finanziari
e culturali, con i paesi europei più sviluppati.
Proibire, ad esempio, ai giovani meridionali di frequentare lo Studio
giuridico della Università di Bologna, anche se disponibile in
loco l'Università di Napoli, voluta dal sovrano per formare la
nuova classe amministrativa, va considerato come uno degli errori di
quel governo fridericiano che avrebbe finito per porre le basi di una
cittadinanza sotto controllo, basata su un rapporto quasi esclusivo con
il proprio re.
Può essere ciò un lontano antecedente di quel regime
clientelare, fondato sull'asse sovrano-padrone e cittadino-suddito,
tipico di sistemi politici pre-moderni, privi di autentica democrazia
emancipatoria?
La pratica della violenza padronale, caratteristica delle zone
più isolate del Sud, può aver avuto in tale prassi di
governo un suo lontano antecedente? Non è stato F. De Sanctis a
scrivere, negli anni '60 del secolo scorso, che “chi non ha santi non
va avanti?”.
In realtà il brigantaggio lucano, particolarmente attivo nel
melfese, appare, a prima vista, la reazione violenta ad un sistema
sociale che ha irrigidito i rapporti di potere tra cafone e padrone,
pur in presenza di un fenomeno storico importante come l'unificazione
del paese. Si leggano attentamente le pagine di Carmine Crocco,
nell'Autobiografia che qui si ripropone, dedicate al suo ingresso
trionfale a Melfi nel 1861.
Già famoso per i suoi trascorsi di combattente al seguito di
Garibaldi, poi spinto a passare al campo avverso come “comandante
francescano”, perchè agli ordini del re borbonico Francesco II,
Crocco, dopo le prime vittoriose gesta di capo brigante, entra
trionfalmente a Melfi.
Ad attenderlo sono le Autorità del paese, i ricchi signori, i
padroni della terra, il Capitolo religioso al gran completo, che lo
salutano alle porte del paese per rendergli gli onori, riverirlo,
mentre in paese si diffonde un'aria di festa, con i balconi pieni di
fiori e coperti di arazzi, mentre il cielo era allietato dal crepitio
dei mortaretti.
Eppure Crocco era lì per far razzie di bestiame e di denari, per
sostenere e confortare i propri uomini desiderosi, com'egli dice, di
tutti i piaceri. A seguire Crocco sono in maggior numero braccianti
agricoli, sellai, pastori, contadini a giornata, pronti ad essere
assunti nella banda per la durata dei bel tempo e poi rientrare nella
fatica quotidiana con il sopraggiungere della cattiva stagione. Nel
circondario di Melfi la natura sembra essere rimasta intatta, allo
stato selvaggio, da secoli.
Assai poche le vie di comunicazione con il resto della regione,
incidentate e pericolose, da sempre facile nascondiglio, soprattutto al
limitare dei boschi, per masnadieri e malfattori pronti a saltare
addosso al malcapitato viaggiatore.
L'agricoltura estranea ai principi ed alle tecniche di una conduzione
moderna, sul tipo di quella sviluppatasi nelle regioni dell'Italia
centrale. Ancora in uso pratiche medievali di uso degli attrezzi
agricoli, mentre la vita quotidiana del contadino si consumava in
angusti tuguri, umidi ed affumicati, in compagnia delle bestie.
Il brigantaggio, e non solo quello lucano, nasce come reazione
istintiva e primitiva ad una situazione medievale di sfruttamento,
è contro i padroni, è in difesa dei cafoni, dei
diseredati e degli ultimi, ma non propone nessun progetto di
rinnovamento nè economico né politico, salvo a
propagandare l'immediato ritorno sul trono del sovrano borbonico
Francesco II, di cui, con il passar del tempo, ci si fidava sempre di
meno, anche da parte degli stessi briganti.
Da Francesco II a Federico II, in realtà, le distanze non
sembravano ai briganti eccessive, se per loro iniziativa il Castello di
Lagopesole diverrà luogo di raccolta del brigantaggio agli
ordini di Crocco, dopo essere stato, ai tempi del sovrano svevo,
residenza di caccia e luogo ameno di piaceri. Ma Melfi avrà pure
una diversa storia da raccontare, se nel suo collegio sarà
eletto un politico della statura di Giustino Fortunato e vi
nascerà uno statista come Francesco Saverio Nitti,
meridionalista e capo del governo fino alla vigilia dell'avvento al
potere del fascismo.
È nel presente, però, che Melfi ritorna all'attenzione
del paese per l'insediamento di una fabbrica Fiat a sistema integrato,
che ha incorporato il modello giapponese Toyota. Eppure un'esperienza
di avanguardia tecnologica come lo stabilimento automobilistico, pur
nell'indubbio significato di progresso economico e sociale che ha in
sè, non esime dal rievocare un passato post-unitario nel quale
il relativo cambiamento economico presentava le caratteristiche di una
colonizzazione di uomini e mezzi, piemontesi per giunta come ai tempi
di Crocco, ricchi di esperienze e di tecnologie, ma privi di efficacia
pervasiva per l'hinterland, aggredito da un processo di modernizzazione
stradale con un impatto violento sul territorio.
Prima di scegliere Melfi la direzione della Fiat aveva sollevato lo
spettro di altri insediamenti territoriali (Spagna, Grecia, Turchia),
convincendo governo, regione e sindacati sulla bontà della
scelta di Melfi per impiantarvi l'ennesima fabbrica Fiat a sistema
integrato, cioè con un sistema produttivo a guida computerizzata
gestito, sul piano della direzione dei lavori, da una maestranza
torinese, e su quello esecutivo, da una mano d'opera locale sottoposta
ad alcuni requisiti; e ben consapevole del carattere totalizzante della
nuova fabbrica, che prevede anche il lavoro notturno (a cielo
continuato), con il beneplacito della normativa Cee che non esclude il
lavoro femminile nei turni di notte.
Su questi temi ha lavorato, con indagini e riflessioni, la rivista
calabrese “Meridiana”, ed in particolare Chersosimo che, in un suo
recente saggio, intitolato, appunto “Viaggio a Melfi”, ha ricostruito
le linee portanti della strategia Fiat di penetrazione nel territorio
meridionale, sperimentando il sistema tecnologico giapponese Toyota,
come è già accaduto per altre fabbriche Fiat insediate al
Sud.
Melfi appare, in tal modo, il segno contradittorio di una realtà
che, pur proiettata in avanti, contiene in sè elementi non
secondari di una irrisolta questione complessiva circa il ruolo che il
Mezzogiorno dovrà rivestire in una strategia di rinnovamento
economico e politico del paese, al di fuori degli equivoci di vecchi e
nuovi colonialismi, magari con il contributo dello Stato.
L'Autobiografia di Crocco ci riporta alle origini moderne della
complessa condizione meridionale.
2) L'AUTOBIOGRAFIA DI C. CROCCO
Al momento del suo primo apparire, stampata dalla Tipografia Greco di
Melfi, proprio agli inizi di questo secolo, nel 1903, qualche anno
prima della morte del suo autore, l'Autobiografia di Crocco è
sembrata agli uni uno scritto pieno di strafalcioni e di bugie ed agli
altri una testimonianza credibile e sincera di una vita spesa per la
causa delle rivolte contadino.
Le diffidenze di B. Croce non hanno incontrato il favore degli altri
studiosi, perchè troppo recisamente negative e stroncatorie.
Crocco ha sempre vantato, rispetto agli altri briganti, un uso della
parola e dello scritto che lo rendeva superiore, anche se ciò
non lo inorgogliva, perchè si rendeva conto che saper leggere e
scrivere non è un dono della natura, ma un'abilità che si
consegue con gli studi e frequentando scuole, come sa chi ha mezzi per
farlo o non ne è stato impedito dalla miseria e dalla sfortuna.
Il manoscritto utilizzato dal capitano Eugenio Massa, suo curatore,
appare correttamente elaborato e scritto con cura, anche se alcuni
brani originali di Crocco, letti in altra sede, per gli errori che
spesso vi ricorrono di sintassi e di grafia, fanno pensare a ben altro
livello culturale dell'autore.
Non è da escludere che il Massa abbia posto mano ad una
ripulitura del testo per renderlo accessibile ad un più vasto
pubblico, date le difficoltà di comprendere una scrittura
inframmezzata da espressioni dialettali. Ma nonostante ciò, il
nerbo del pensiero politico e militare è di tutto rispetto,
chiaro nelle intenzioni, efficace nel modo di esporre ed interpretare
la realtà sociale della Lucania nel decennio post-unitario.
L'Autobiografia ha il suo punto d'avvio nella rievocazione accorata del
paesello natio, Rionero in Vulture, dove Crocco è nato, in una
capanna di foglie e fango alla periferia del paese, a stretto contatto
con pecore e galline, in un lembo di terra attaccato al piccolo podere
paterno capace di produrre un pò di legumi e verdure per il
sostentamento della famiglia numerosa, cinque figli più i
genitori.
L'immagine della famiglia è sempre presente nella memoria di
Carmine Crocco, soprattutto il dramma della madre, incinta, finita in
manicomio per i calci selvaggi subiti da un signorotto locale,
inviperito per l'uccisione, forse involontaria, del suo cane levriero
provocata dai fratelli di Crocco. Ma i guai giudiziari per la famiglia
verranno successivamente, quando il padre sarà ingiustamente
accusato di aver proditoriamente colpito a fucilate, in aperta
campagna, il signorotto responsabile della violenza alla moglie. In
realtà si era trattato, e il racconto di Crocco appare
veritiero, di un tentato omicidio perpetrato da chi pensava di
vendicarsi dell'arrogante “galantuomo” per aver questi disonorato una
onesta fanciulla del posto.
Quel dramma familiare, con il padre in carcere e la madre in manicomio,
non si staccherà mai dai ricordi del “comandante”, gli
alimenterà la ferocia e la forza di combattere contro qualsiasi
forma di oppressione. Era un modo per sentirsi vicini a tutti quelli,
ed erano tanti, che condividevano la medesima sorte di emarginazione e
di miseria, di soprusi padronali e di angherie personali.
Un sincero attaccamento alla religione cattolica, pur vissuta sotto
forma di fede cieca e di superstizione, che non gli impediva di portare
sempre addosso ninnoli e oggetti sacri o immagini di santi, venerate
come presenze benefiche e cariche di auspici per il futuro. I briganti
custodivano una loro religiosità primitiva e superstiziosa, ben
salda nelle radici storico-antropologiche del popolo lucano, che
spetterà poi a Ernesto De Martino illustrare con la finezza
dell'analisi che gli è congeniale.
Certo la religione era anche quella cattolica del sovrano borbonico, di
Francesco II, che vantava l'appoggio della Chiesa ufficiale che, nella
sua alta gerarchia, non esprimeva intenzione alcuna di accettare la
vendita pubblica dei beni ecclesiastici voluta dal nuovo Stato
unitario. Ma il rapporto di Crocco con la religione è anche
più variegato, meno primitivo, più attento ai risvolti
umani di un magistero ecclesiastico che spesso nascondeva tra le sue
pieghe personaggi loschi al pari degli odiati padroni, come quel prete
a cui egli aveva fatto un prestito cospicuo in scudi, e, al momento
della restituzione, aveva preferito dileguarsi.
Del resto i tanti denari sequestratigli nello Stato Pontificio, alla
fine delle sue avventure brigantesche, Crocco non li vedrà
più e ne scriverà stizzito, ma non meravigliato, nelle
ultime pagine della sua Autobiografia. Nemmeno il richiamo alla patria,
di cui era infarcita certa retorica nazionale, lo attirava più
di tanto. Sapeva assai bene che a combattere erano sempre gli stessi,
da una parte e dall'altra, figli della terra, contadini e pastori, al
comando di ufficiali ben pagati e reazionari, in grado, se in possesso
di denari, di chiedere ed ottenere l'esonero dal servizio militare, nel
quale, peraltro, la pratica della violenza era assai diffusa e si
esercitava sulle inesperte e malcapitate reclute.
Uno dei primi delitti di Crocco è stato commesso proprio in
ambiente militare, al tempo della sua prima chiamata sotto le armi
dell'esercito borbonico.
Il ricordo di Rionero, delle sue serate trascorse in una vecchia
masseria per ascoltare gli anziani del posto, veterani di tante guerre,
tornati dal fronte zoppi o guerci, poteva essere una scuola di vita e
disciplina militare, per dirla con un'espressione cara a Luigi Russo.
Il rispetto delle leggi ne era il centro, come pure l'obbedienza ai
superiori, anche se questi cambiavano spesso di colore politico, pur
rivolgendosi al popolo con la stessa iattanza. La società
è fatta di furbi e di bravi cittadini, di gente onesta e di
corrotti, ed alla fine sono questi ultimi ad avere la meglio
perchè s'impongono con la forza e con l'arroganza. Guai a farsi
agnello, è solito ripetere Crocco, perchè a farti pecora
ti aggredisce il lupo. La violenza si esercita su tutto, sulle cose e
sulle persone. Le donne sono spesso le vittime predestinate.
Chi non le rispetta per quello che sono e rappresentano, e cioè
una parte vitale della società, perchè lavorano ed
aiutano, allora vada a zappare la terra con l'aratro, scrive il capo
dei briganti, e non è degno di rispetto.
Un “galantuomo” di Rionero, che aveva tentato d'insidiare l'onore della
sorella Rosina, cadrà sotto il pugnale di Carmine. Certo la
violenza sessuale sulle donne è stata una pratica diffusa
durante le incursioni dei briganti, assetati di tutto, di ricchezze e
di piaceri proibiti, talvolta in ossequio ad un principio di disprezzo
dei prossimo che neppure i comandanti più morigerati riuscivano
a calmare.
Lo stupro di massa ha molto spesso accompagnato le azioni militari dei
briganti, e non sempre si è trattato di sole donne borghesi
talvolta in grado di fuggire per tempo, ma anche di figlie del popolo,
di contadini più o meno benestanti, o di mogli stuprate alla
presenza di mariti, come avverrà nei conflitti etnici di
più recente e tragica memoria.
Le dichiarazioni di Crocco su questo punto appaiono sfumate o
reticenti. In sede d'interrogatorio al processo penale, presso la Corte
di Potenza nel 1872, Crocco, alla domanda sulla violenza alle donne
risponde con la metafora del beccafico, cioè di un uccello in
libertà che becca dove gli pare e piace.
Certo il racconto delle gesta occupa gran parte dell'Autobiografia, ne
è come lo sfondo nel quale sfilano personaggi, amici e
collaboratori, bersaglieri e cavalleggeri di Saluzzo, elogiati per
l'amore della disciplina e il disprezzo del pericolo, che spesso
mancava ai briganti, non addestrati militarmente ed in possesso di armi
superate ed impari alle necessità della lotta.
Pur essendo di numero inferiore, la banda di Crocco al massimo del suo
fulgore, tra uomini e cavalli, non ha superato le duemila unità;
dimostra una conoscenza assai profonda delle asperità dei
luoghi, inaccessibili alle armate settentrionali, con grotte naturali e
nascoste, talvolta con uscite segrete.
Non sempre la disciplina dei capo è seguita fino al millesimo,
come nel caso di Ninco Nanco, senza escludere il tradimento perpetrato
proprio dal luogotenente Caruso ai danni della banda di Crocco. Si sa
che per le rivelazioni, il “pentito” Caruso avrà salva la vita e
possibilità di lavorare, sotto forma di un premio che le
Autorità militari, d'intesa con quelle civili, avevano pensato
di stabilire nei confronti dei briganti che avessero deciso di parlare.
Non è da escludere che ci si trovi di fronte ad una forma
pionieristica di legislazione speciale sul pentitismo, nuova nei
confronti di altre come il confino per banditi ed alcuni briganti,
già in uso ai tempi dei borboni.
Quanto ai saccheggi dei paesi, di cui si discorre nell'Autobiografia,
le immagini che risaltano agli occhi sono quelle di una violenza che
non conosce confini, che penetra negli angoli più riposti delle
case e dei palazzi per ammazzare donne e uomini, bruciare vecchi,
martirizzare bambini. Ma non è stata da meno la ferocia
dell'esercito piemontese, con le ordinanze dei Generale Cialdini,
disposto a mettere a soqquadro, incendiando e devastando, interi paesi
alla semplice, e talvolta non verificata, notizia sulla presenza di
briganti in loco.
Il processo presso la Corte di Potenza, nell'estate del 1872, al
termine delle peripezie di Carmine Crocco, illuso a più riprese
dagli ambienti borbonici, francesi e dello Stato Pontificio, su una
eventuale liberazione mediante fuga in Algeria, ha reso possibile una
riunificazione dei reati di accusa, omicidi e grassazioni, per un
numero assai elevato; ma, comunque, anche inferiore a quello di altri,
come Caruso, il pentito che aveva potuto beneficiare dei condoni
giudiziari, pur avendo commesso quasi il doppio dei reati contestati
allo stesso Crocco.
Certamente è difficile rileggere l'autobiografia di Crocco
tralasciando quei documenti di psichiatria positivistica che sono i
referti o le relazioni rilasciate dai medici carcerari Penta e
Cascella. Oltre i rilievi craniometrici, i riferimenti alle arcate
sopraciliari, che ricordano tanto lo stigma del meridionale delinquente
diffuso negli ambienti piemontesi da Cesare Lombroso, già
ufficiale medico in Calabria presso un battaglione del nord, e teorico
sussiegoso di tratti facciali di contadini calabresi e meridionali
predisposti da natura a delinquere.
I dottori penitenziari Penta e Cascella, che hanno visitato a
più riprese nei bagni penali di Porto Ferraio Carmine Crocco,
quasi al termine della sua esistenza, non aiutano assolutamente il
lettore dell'Autobiografia o lo studioso del brigantaggio a capire
più in profondità il perchè di quella scelta della
lotta da parte di un uomo, che probabilmente sarebbe stato lo stesso
anche se con labbra, naso ed orecchie diverse da ciò che era
stato intravisto dagli ingenui anatomisti del carcere.
Un'ultima questione rimane da chiarire per chi legga quel testo: la
reticenza di Carmine Crocco a fare dei nomi di suoi eventuali
protettori o manutengoli. La famiglia Crocco ha lavorato su terre che
rientravano nella proprietà demaniale dei Fortunato di Rionero
in Vulture.
Qualcuno ha pensato che in quella famiglia, successivamente illustrata
da Giustino meridionalista e politico, attecchisse qualche forma di
“manutengolismo” a difesa dei brigante.
Crocco, in realtà, pur non facendo nomi di personaggi illustri,
pur dimostrando reticenza, non ha difficoltà ad orientare il
lettore nella direzione giusta, facendogli intuire il bersaglio
preciso. Del resto la commutazione della pena capitale in quella
dell'ergastolo, avvenuta nel 1874, è il riflesso della
convinzione dei giudici di Potenza che le rivelazioni del capo brigante
aprivano squarci ampi per conoscere il fenomeno dei brigantaggio; anche
se lo stato della magistratura del tempo, con la lentezza dei processi
e il numero limitato di magistrati inquirenti, e non sempre ligi al
proprio dovere, rendevano possibile quella doppia giustizia, per i
poveri e per i ricchi, contro la quale lo stesso Crocco aveva pensato,
ricorrendo talvolta a mezzi poco ortodossi, di scatenarsi per dare
esempio ai poveri inermi, per intimorire i ricchi arroganti, ma anche
per godere, a titolo personale, di vantaggi e piaceri.
3) IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE
Il brigantaggio che si diffonde nell'Italia meridionale, continentale
ed insulare, è un fenomeno che si sviluppa a più riprese,
e con connotati organizzativi sempre più massicci, tra la fine
del '700 e il primo decennio dopo l'unità d'Italia.
Alla base risulta preponderante il contrasto città e campagna,
centro e periferia, cioè realtà spaziali in cui la
dislocazione del potere ha assunto le configurazioni più
disparate. Nel primo ventennio dell'Ottocento prevale una forma
variopinta ed eterogenea di personaggi e di gruppi briganteschi che si
diffondono nelle campagne con l'obiettivo di difendere i contadini dai
soprusi dei padroni.
Le zone maggiormente interessate sono quelle dell'Abruzzo, della
Campania e il territorio di confine tra Lucania e Puglia. I capi
più ragguardevoli sono il bracciante Gaetano Vardarelli e
l'abate Ciro Annicchiarico. Obiettivo delle rivolte non è solo
la rivendicazione di una vita migliore nelle campagne, ma pure la
reazione contro le truppe straniere stanziate nel Sud a salvaguardia di
regimi corrotti e spoliatori. Gaetano Vardarelli, la cui storia
è stata ricostruita da A. Lucarelli sulla base di materiali
d'archivio di Napoli, è la figura tipica di brigante che si fa
vindice di contadini sfruttati, ai quali non è nemmeno
consentito raccogliere nei campi le spigolature lasciate libere dalla
lama dell'aratro.
Il Vardarelli esige a gran voce, dagli esosi padroni, il rispetto dei
contadini affamati, miseri, in cerca del minimo per sopravvivere alle
ristrettezze della vita quotidiana.
Naturalmente non propone, nè è in grado di farlo, un
programma di riforma agraria che colpisca i rapporti di
proprietà secolari nelle campagne del Sud. La sua azione
è brigantesca, si limita a saccheggiare e rapinare per
distribuire qualcosa, ma lasciando intatto il sistema di vita e di
sfruttamento dei contadini. Figura estrosa e caratteristica di brigante
d'inizio secolo è quella dell'abate Ciro Annicchiarico, di
Grottaglie, trait d'union con il brigantaggio di Terra d'Otranto.
Il prete tarantino, divenuto brigante per sfuggire alla giustizia che
lo perseguitava per un delitto commesso nel suo paese per motivi
amorosi di rivalità con un altro abate, al pari di lui gaudente
e libertino, è personaggio alquanto contraddittorio e
paradossale. Cresciuto culturalmente in ambienti religiosi nei quali le
regole di condotta erano informate a principi di rigida morale
cattolica, don Ciro non perderà tempo ad accorgersi che il mondo
va avanti in modo diverso da quello immaginato, perchè in esso
la violenza è più diffusa di quanto s'immagini,
sicchè il principio evangelico del porgere la guancia a chi ci
fa del male può essere rischioso, fino alla perdita della vita.
Sicuro conoscitore delle asprezze naturali di Terra d'Otranto, sceglie
quel territorio come luogo prediletto per le sue azioni brigantesche,
ben sicuro che in breve volger di tempo sarebbe riuscito a
comprometterne la fama di terra civile per arte e monumenti.
È nel leccese, infatti, negli anni 1810-17, che l'abate di
Grottaglie intrattiene rapporti di collaborazione di setta e di 16 armi
con gruppi della Carboneria salentina, con Filadelfi, Patrioti Europei,
Decisi, modificando le procedure di affiliazione con sistemi di
giuramento in cui l'affiliato promette di battersi fino in fondo con il
nemico del momento (stranieri e padroni).
Il generale irlandese R. Church, ben consapevole del rischio
incombente, fa pressione sui gruppi dirigenti della carboneria leccese
perchè non offrano aiuto al prete brigante, per agevolare la
cattura e la fucilazione.
Nell'intesa tra briganti e Carboneria è centrale un programma
alquanto fumoso di palingenesi sociale, di trasformazione delle sorti
dei mondo nel quale, dopo la vittoria militare, avrebbero trionfato i
principi della giustizia e della salvezza eterna. In quegli anni Lecce
è stata teatro di omicidi e delitti efferati, quali mai si erano
visti nella storia del passato, a tal punto che sulla stampa nazionale,
sui periodici del tempo, ci si chiedeva dove fosse andata a finire
tanta civiltà del Salento intessuta di arte e buone maniere.
Certamente il caso di don Ciro può essere emblematico di un
comportamento del mondo clericale nei confronti del brigantaggio, che
si sarebbe sviluppato, in modo particolare, nel decennio post-unitario.
I Decreti di Pasquale Stanislao Mancini per la vendita dei beni
ecclesiastici, alienandoli alla Chiesa e liberalizzandone l'acquisto
anche per i borghesi, appariva ed era un colpo per la stessa
sopravvivenza della Chiesa, come potere religioso in grado di
sottoporre a controllo la massa dei contadini.
I Decreti Mancini annullavano il Concordato del 1818 e ponevano su
nuove basi i criteri per la formazione della proprietà
fondiaria.
Immediata conseguenza la crisi del clero patrimoniale e la spinta
progressiva verso comportamenti di reazione ai processi unitari
impersonati dalla monarchia sabauda, da uno statista liberale e da un
sistema politico che veniva sostituendo il vecchio ceto politico, di
estrazione aristocratica, con burocrati e funzionari di origine
borghese.
Nel Mezzogiorno la gran massa del clero, rimasto senza
proprietà, non ha difficoltà a schierarsi a fianco di
chi, per motivi diversi ma convergenti, combatteva, con rudimentali
mezzi militari, l'alterigia dei nuovi padroni.
Il brigantaggio, infatti, negli anni successivi all'Unità
d'Italia, insorge e si organizza in tutto il Mezzogiorno, perchè
le nuove condizioni politiche s'impongono mediante strategie economiche
e fiscali che aggravano le condizioni della campagne, fanno diminuire
le attività lavorative, assottigliano le risorse finanziarie del
Sud; lo sviluppo industriale del Nord, infatti, basato su lavori
pubblici ed incremento delle reti commerciali, ha bisogno di crediti
non disponibili in Piemonte, perchè prosciugati dalle tante
guerre che si erano combattute dal 1848 in poi.
Senza dire, poi, che l'avvio al Sud del nuovo Stato unitario era stato
accompagnato dalla presenza di maestranze e funzionari che inondarono
il Mezzogiorno, senza provocarvi fenomeni di sviluppo endogeno, in un
territorio da secoli abbandonato alla miopia di politiche prive di
respiro regionale o nazionale. In alcune realtà, come la
Calabria, il brigantaggio presentava un insediamento oltremodo stabile
e rispettato, fondato su un patto segreto di alleanza con il ceto degli
agrari e dei padroni, da cui attingeva denari, mezzi, informazioni sui
movimenti delle truppe governative.
Indubbiamente l'organizzazione militare delle comitive dei briganti,
pur non avendo analogie con le tecniche di guerra delle truppe
piemontesi (bersaglieri e cavalleggeri), aveva il suo punto forte in
una dislocazione decentrata delle truppe in rapporto alle
difficoltà del terreno, conosciuto nei dettagli dai briganti,
ma, spesso, trappola mortale per i soldati settentrionali o per la
Guardia nazionale. Dopo la fuga a Gaeta del Re Francesco II si era
pensato di porre su basi organizzative più efficienti le risorse
militari del brigantaggio, per concentrarle ed affidarle, se possibile,
al comando più esperto di generali legittimisti.
È il caso, tra gli altri, del comandante spagnolo Josè
Borjès, inviato dai circoli borbonici, via Malta, in Calabria,
con la promessa, poi rivelatasi illusoria, di un gran seguito tra la
popolazione locale. Nell'Autobiografia di Crocco si racconta con
realismo l'incontro avvenuto a Lagopesole fra i due uomini d'arme,
breve nel tempo ma tale da far capire ad entrambi che al comando unico
non si sarebbe arrivati, perchè Crocco diffidava di uno
straniero inviato nella sua terra a sottrargli la guida militare dei
suoi uomini.
4) IL BRIGANTAGGIO. ANALISI ED INTERPRETAZIONI
Nell'analisi del brigantaggio si può ritenere esaurita la
seconda fase della riflessione storiografica, quella provocata dalle
celebrazioni per il centenario dell'Unità d'Italia (1961), in
uno scenario di retorica nazionale in cui quell'episodio brigantesco
appariva quale cronaca inedita di una storia politica ancora da
conoscere in profondità.
La prima fase d'indagine si era protratta stancamente nei primi decenni
di questo secolo, subito dopo la pubblicazione dell'Autobiografia di
Crocco avvenuta a Melfi nel 1903, e si era consumata sul tema della
veridicità o meno di quel testo.
La terza fase nasce in un periodo di profondo sconvolgimento della
tradizione storica e politica del nostro paese, con un pericolo di
secessione all'orizzonte e con un più accentuato interesse a
rivedere la storia d'Italia a partire dai primi anni successivi
all'unificazione.
Una nuova tensione di analisi che comincia a coniugare meridionalismo e
federalismo, rispolvera vecchi progetti e ridà fiato ad una
lettura della vita politica e nazionale per troppo tempo esauritasi sul
terreno del continuismo ad ogni costo. Nell'interpretazione del
brigantaggio è stato ormai accumulato un materiale cospicuo,
locale ed internazionale, che attende di essere classificato ed
organizzato in rapporto alle nuove esigenze dell'analisi storica.
Finora sono stati elementi decisivi, nell'impostazione del problema
storiografico, fonti e testi concernenti Relazioni parlamentari o saggi
di studiosi.
Oggi si è in possesso di materiale proveniente dalla stampa
dell'epoca, italiana e straniera, che può fare molta luce sul
fenomeno del brigantaggio, come sono utili pure i volumi degli studiosi
stranieri. Anche per le fonti militari, dispacci privati e lettere di
una parte sia pure minoritaria dell'esercito destinato al Sud con
obiettivi di repressione, il discorso è aperto.
La stampa locale (Corriere lucano, ad esempio), coeva al brigantaggio
di quella regione, è assai attenta nel descrivere scene di
rapine e saccheggi dei briganti, nel sottolinearne la particolare
efferatezza e la pericolosità per l'ordine pubblico e,
soprattutto, per la proprietà privata.
Si tratta sostanzialmente di un foglio locale probabilmente finanziato
dal padronato agrario, facile ai cambiamenti d'umore politico e con una
tendenza al conformismo ed alle pratiche trasformistiche che da
lì a pochi anni avrebbero avvelenato la vita politica
meridionale. In Piemonte, a Torino in particolare, la stampa che dedica
più spazio al brigantaggio meridionale, è quella
satirica, che lancia sberleffi contro lo Stato Pontificio ritenuto
fiancheggiatore dei briganti, contro la corte borbonica fomentatrice
dei disordini; nel più radicale disprezzo dei briganti,
già oggetto di studio di antropologi come Cesare Lombroso che,
in qualità di ufficiale medico dell'esercito piemontese, era
stato in Calabria a combattere nel 1862, realizzando ricco materiale
fotografico su cui avrebbe costruito lo stigma dell'uomo delinquente,
frutto selvaggio dell'ambiente mediterraneo ed espressione tipica della
razza maledetta.
In Europa la stampa più diffusa (Times, Cazette de Losanne,
Revue de deux mondes) è quasi unanime nel riconoscere la
pericolosità del brigantaggio meridionale, ma è
altresì convinta che va interpretato come spia di un malessere
più ampio di cui erano stati responsabili i governi che avevano
retto le sorti del Mezzogiorno.
La politica della repressione selvaggia e delle fucilazioni sommarie,
tra i Decreti Cialdini e la legge Pica, non ha riscosso, in linea
generale, la simpatia della stampa estera, 20 che non poco ha
contribuito a far pressione sul governo piemontese, in
difficoltà diplomatica, per allentare la morsa ed inaugurare una
legislazione penale più rispettosa dei diritti umani. Tra i
militari i pareri appaiono assai discordi.
Per alcuni ufficiali e soldati della base il brigantaggio è
nient'altro che il riflesso violento di una condizione contadina che
non ha pari nel resto del paese.
Risaltano agli occhi dei militari critici, pochi nei confronti degli
ufficiali convinti della necessità delle maniere forti, le aspre
realtà della campagna meridionale, senza vie di comunicazioni,
senza strade nè ospedali, prive di scuole e di mezzi di lavoro
moderno, piena di analfabeti incapaci di esprimersi in una lingua
italiana comprensibile ai più.
Sono documenti letterari pieni di sconforto e di pietà, per una
condizione di miseria che la nuova realtà istituzionale non
sembrava avesse voglia di mettere in discussione. Ma non mancava chi,
su qualche foglio torinese, rivolgendosi ai battaglioni
antibrigantaggio, li sollecitava ad eliminare i briganti, con la stessa
risolutezza con cui gli Inglesi avevano debellato le popolazioni
dell'India!
Il Parlamento nazionale è costretto a discutere il problema in
una riunione riservata dei 1863, nella quale si prenderà spunto
dai materiali elaborati dalla Commissione d'inchiesta presieduta dal
deputato barese C. Massari. Erano stati interrogati militari, sindaci,
impiegati, gente del popolo, e il quadro che ne veniva fuori non
lasciava adito a dubbi.
La realtà sociale del Sud risultava drammatica. Lo stesso
Massari, pur meridionale ma da anni in volontario esilio, solo
attraverso l'inchiesta viene a conoscenza del fenomeno. Nel
Mezzogiorno, vi si scrive, lo sviluppo economico immaginato non
c'è stato.
Nelle zone un pò più avanzate il brigantaggio si è
presentato con caratteristiche di minore entità o
pericolosità. Risalta dappertutto l'assenza di lavori pubblici,
il mancato ammodernamento delle tecniche agricole, l'assenza di vie di
comunicazione, la mancanza di scuole del leggere e dello scrivere.
Certo le critiche al governo nazionale appaiono sfumate, prive di
contorni precisi, quasi naufragate in un contesto di discorso
più attento ai termini metodologici dell'analisi che alla
denuncia delle malefatte della nuova classe dirigente.
Sarà più esplicito, in tal senso, il deputato Aurelio
Saffi, di orientamento più radicale, e più convinto delle
responsabilità dirette del governo unitario più
favorevole ad agevolare la classe imprenditoriale del Nord, in
competizione con parametri di sviluppo industriale che già si
diffondevano in Europa. Ma una conferma della situazione di estremo
disagio dei Sud verrà fuori con il viaggio di Zanardelli in
Basilicata del 1902, che sarà, com'è noto, alla base
della futura legislazione speciale per il Sud.
La Basilicata, visitata in due settimane dallo statista bresciano,
è la stessa che si conosce attraverso l'autobiografia di Crocco.
Niente vie di comunicazione, nè ferrovie, nè fabbriche,
nè lavoro diffuso, ma molta miseria ed ignoranza, condizioni
sanitarie deplorevoli, spinta all'emigrazione.
Lo ricorderanno di lì a poco due figli generosi della Lucania,
come Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti. In tutta la sua
attività di parlamentare del circondario di Melfi, e di studioso
del Mezzogiorno, il Fortunato indicherà nella irrisolta
questione demaniale uno dei nodi più intricati del mancato
sviluppo industriale e sociale del Sud, quasi una testimonianza
visibile di quel ritornante feudalesimo che sembrava stesse a cuore a
tutti i governanti che si erano alternati con responsabilità
politiche nei confronti del Sud.
Per Nitti il brigantaggio è da considerare la spia di un grave
malessere sociale iniziato con l'imposizione, alle. regioni
meridionali, di un sistema fiscale oppressivo che avrebbe drenato verso
il Nord risorse finanziarie indispensabili per far decollare in forma
autonoma un sistema produttivo, quasi sempre parzialmente assistito da
una classe dirigente in cerca di clientele.
Ma i primi ad accorgersene sono i contadini, incerti tra movimento
anarchico ed organizzazione socialista, pronti a mollare la presa per
lidi lontani in 22 cerca di lavoro (al Nord, in Europa e in America),
sicchè l'odissea dei briganti, come dirà Nitti, si
concluderà con quella di emigranti.
Gli studiosi più famosi del brigantaggio (P. Villari, A.
Lucarelli, F. Molfese), senza dimenticare i tanti che nella
storiografia locale hanno agevolato la conoscenza di quel fenomeno,
sono abbastanza d'accordo nel denunciare le cause di carattere
economico e sociale che hanno dato l'avvio alle azioni brigantesche.
Nelle “Lettere meridionali”, del 1875, Villari ricostruisce il quadro
della sofferenza meridionale a partire dalla nascita della
criminalità organizzata (dal brigantaggio alla camorra ed alla
mafia), per denunciare connivenza della politica con gli affari
protette dalla violenza mafiosa e camorristica.
Il malgoverno centrale, ma anche quello delle città , delle
grandi città come Napoli o Roma, esprime una classe municipale
alleata con le bande criminali per dilapidare il pubblico erario.
Una cosa del genere si era già vista nella strategia del
brigantaggio calabrese, non alieno da intese di effettiva
collaborazione con il ceto degli agrari e dei ricchi proprietari. Gli
scritti su “Il brigantaggio politico” Antonio Lucarelli, allievo di A.
Labriola nell'Università di Roma, storico della Puglia nel
Risorgimento, offrono al lettore un quadro assai ampio del brigantaggio
pre-unitario (Vardarelli, Annicchiarico, Sergente Romano), chiarendo,
con ricco materiale d'archivio, il ruolo della Puglia nello sviluppo
storico del brigantaggio meridionale (connivenza con la Carboneria
leccese, clero legittimista e fiancheggiatore, borghesi reazionari).
Ma è con le ricerche di F. Molfese sulla “Storia del
brigantaggio dopo l'Unità” che la riflessione, sul fenomeno di
rivolta contadina del decennio post-unitario, acquisisce contorni
interpretativi più netti e precisi rispetto al passato. È
la strategia complessiva di lotta contro il brigantaggio che tradisce
le reali intenzioni del governo unitario.
Anzitutto disperdere l'esercito garibaldino, scioglierlo e in parte, ma
in piccolissima parte, farlo rifluire nell'esercito settentrionale, per
evitare il rischio, paventato da Cavour, che la rivoluzione di
Garibaldi potesse rinfocolare gli spiriti democratici dei liberali
meridionali, già esacerbati dal malgoverno borbonico. In un
secondo tempo attaccare le forze legittimiste, stroncando con le
tecniche della repressione più feroce la resistenza dei
briganti, per poi lasciare, diplomaticamente, aperta una porta per la
riconciliazione successiva, dei rappresentanti del vecchio ceto
borbonico e dei borghesi conservatori, con la politica dei moderati;
obiettivo principale dell'egemonia piemontese per ostacolare in tutto
il paese qualsiasi forma insurrezionale, brigantaggio o rivoluzione
democratica, e per azzerare le chances della rivolta sociale.
In tale circostanza storica sarebbero state poste le basi di quella
strategia di controllo sociale che avrebbe segnato il trionfo dell'ora
dei moderati, per dirla con un'espressione di Gramsci, in carcere,
reduce da una esperienza intellettuale precedente di analista politico
della questione meridionale.
5) BANDITI, RIBELLI, RIVOLUZIONARI
La conoscenza del brigantaggio meridionale in Europa, ed in particolare
in Francia, Inghilterra e Svizzera, è legata, da molti anni,
alla diffusione di ricerche e documenti di autori stranieri (Dumas,
Monnier, Church), spesso stimolati da intellettuali italiani in esilio,
preoccupati di diffondere, presso l'opinione pubblica internazionale,
un'immagine realistica delle malefatte dei vari governi che si sono
succeduti nella direzione politica del Mezzogiorno.
Talvolta ci si trova di fronte a ricostruzioni di tipo fantasioso o
leggendario, basate su testimonianze di protagonisti, come il generale
irlandese R. Church, ma riportate da altri. E noto, infatti, come
ricorda Lucarelli, che è stato Carlo Lacaita, in Inghilterra, a
spingere una familiare del generale Church a tradurre per iscritto
immagini ed impressioni trasmesse oralmente e riguardanti, in
particolare, la vicenda del prete brigante di Grottaglie, Ciro
Annicchiarico, e la storia dei rapporti tra brigantaggio e Carboneria
leccese agli inizi dell'Ottocento. Diari ed epistolari di briganti sono
spesso pubblicati in appendice a libri apparsi all'estero, come nel
caso del Monnier, giornalista svizzero che ha avuto modo di seguire da
vicino molte gesta brigantesche e di raccontarle per i suoi lettori di
lingua francese.
Ma tra i libri sul brigantaggio di autori italiani che abbiano varcato
la frontiera nazionale, è da ricordare quello di F. Molfese,
uscito nel 1964 e ricco di una documentazione originale ritrovata
presso Archivi e Biblioteche del Parlamento.
Si pensi alla rilevanza della Relazione di Massari, per decenni rimasta
ignorata per gran parte dei politici e degli studiosi. Ma il libro del
Molfese è stato al centro dell'attenzione di uno dei più
grandi storici inglesi viventi, E. J. Hobsbawm, che ha dedicato, al
tema del banditismo sociale nell'Europa moderna, un'ampia ricerca in
tre volumi.
L'opera di Hobsbawm segna una tappa importante nella riflessione
storiografica sul problema del brigantaggio, non solo per l'ampiezza
dei riferimenti storici, che spaziano dall'Italia all'Europa ed al
mondo intero, ma, soprattutto, per lo spessore metodologico
dell'indagine che mette ordine nella classificazione anche teorica dei
concetti di bandito, ribelle e rivoluzionario.
Il riferimento al brigantaggio meridionale, in quella ricerca, è
costante, preciso, sempre attento alle connessioni tra i vari fenomeni
della violenza sociale nei contesti rurali ed urbani. Nell'opera di
Hobsbawm si dà gran rilievo alla figura di Carmine Crocco ed
alla sua Autobiografia, considerata “interessante”, perchè in
essa vi traspare la vicenda di un capo brigante che nella realtà
contradittoria del Sud ha rappresentato al meglio l'idea di una rivolta
sociale nelle campagne per obiettivi di liberazione, sia pur priva di
progetto rivoluzionario.
I banditi sociali, scrive Hobsbawm, sono fuorilegge rurali, considerati
malfattori dal signore e dall'autorità locale, ma che pure
restano dentro la società contadina e sono considerati dalla
propria gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la
giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e “comunque uomini
degni di ammirazione, aiuto e appoggio”.
Il fenomeno del banditismo sociale esprime, in situazioni storiche le
più disparate, un intreccio significativo tra contadini e
ribelli, da non confondere con malavitosi professionali, che fanno
delle scorrerie e delle rapine l'oggetto esclusivo della loro
attività delinquenziale.
I delinquenti di professione vedono nel contadino la preda naturale, lo
aggrediscono e ne violentano le donne, lo rapinano e fanno razzie. Un
bandito sociale, al contrario, non metterà mano sul raccolto del
contadino, e se talvolta sarà costretto a requisire merci e
denari per esigenze logistiche, attenderà il momento propizio
per restituire il mal tolto.
Il banditismo sociale non ha senso al di fuori dei rispetto tacito di
questa norma. “Il banditismo sociale di questo tipo è uno dei
fenomeni sociali più universali della storia e presenta una
straordinaria uniformità.
Quasi tutti i casi rientrano in due o tre tipi chiaramente correlati, e
all'interno di questi tipi, le variazioni sono relativamente
superficiali. E quel che più conta, questa uniformità non
è una conseguenza della diffusione culturale, ma il riflesso di
situazioni consimili all'interno di società contadine, in Cina
come in Perù, in Sicilia come in Ucraina o in Indonesia.
Il fenomeno, geograficamente, è diffuso nelle due Americhe, in
Europa, nel mondo islamico, nell'Asia meridionale e anche in
Australia”. Nei moderni sistemi agrari, di tipo sia capitalistico che
post-capitalistico, è precluso lo spazio al banditismo sociale.
È nella modernità che il banditismo sotto qualsiasi forma
cambia spetto, perchè lo sviluppo economico, l'efficienza della
pubblica amministrazione e della rete stradale, rendono difficoltosa
l'attività tradizionale del bandito.
Quanto al numero complessivo delle bande e degli uomini che le
costituiscono, non si tratta di grandi cifre, ma di gruppi che spesso
appaiono interscambiabili tra di loro, senza tener conto di alcune
variazioni regionali. “È un luogo comune, ormai, che i briganti
prosperino nelle zone isolate e inaccessibili, come le montagne, le
pianure prive di vie di comunicazione, le zone paludose, le foreste o
gli estuari, con i loro labirinti di canali e insenature, e siano
attirati dalle strade commerciali e dalle grandi arterie, dove, in
epoca pre-industriale, i viaggi sono lenti e scomodi”.
L'inefficienza politica e la complicazione della macchina
amministrativa favoriscono il brigantaggio, che quasi sempre si
dà all'assalto di municipi, per bruciare e mettere a soqquadro
archivi comunali e registri fondiari.
Il brigantaggio è stato particolarmente diffuso nell'area del
Mediterraneo in epoca moderna, ed è apparso endemico nei momenti
di crisi economiche, carestie ed epidemie. Nelle società
contadine tradizionali la carestia è come un dato storico
permanente, che trascina con sè conseguenze sociali enormi di
miseria e povertà, che si riversano pesantemente sui contadini
come le guerre e i tracolli amministrativi.
Come individui i banditi, più che ribelli politici o sociali, o
ancor meno rivoluzionari, sono contadini che rifiutano l'obbedienza al
padrone e si staccano dal ceto di appartenenza; sono costretti a darsi
al crimine perchè esclusi dall'occupazione usuale. In gruppo, o
in masse, sono sintomi di crisi sociale e di carestia.
I banditi sono uomini d'azione e non profeti o ideologi, nè sono
in grado di proporre nuovi piani di organizzazione politica e sociale.
“Alcuni capi briganti dell'Italia meridionale, annota Hobsbawm, tra il
1860 e il '70, come Crocco e Ninco Nanco, rivelarono doti di comando
che suscitarono l'ammirazione degli ufficiali che combatterono contro
di essi, ma per quanto gli “anni del brigantaggio” costituiscano un
raro esempio di un'importante sollevazione contadina capitanata da
banditi sociali, i capi briganti non incitarono mai, in nessun momento
della rivolta, i propri uomini a occupare le terre, e a volte, anzi,
parvero addirittura incapaci di concepire una “riforma agraria”, come
oggi verrebbe chiamata”.
Obiettivo dei banditi è quello di restaurare l'ordine
tradizionale, rimettere a posto le cose nel loro valore mitico o reale,
ma non già di chiedere che non ci siano più padroni. “I
banditi sociali sono, in questo senso, dei riformatori, non dei
rivoluzionari”. Ma se il brigantaggio diventa il simbolo di resistenza
dell'intero ordine tradizionale contro le forze rivali, allora
può apparire come una “rivoluzione sociale”, anche se opera a
favore di una causa reazionaria.
I banditi e i contadini napoletani insorti contro stranieri e giacobini
in nome del papa, del re e della fede, erano rivoluzionari, mentre il
re e il papa non lo erano. “I briganti non insorgevano a difesa del
regno dei Borboni reale - molti, anzi, pochi mesi prima avevano
collaborato con Garibaldi per abbatterlo - ma per l'ideale della
società dei buon tempo antico, simbolizzata naturalmente
dall'ideale del Trono e dell'Altare. In politica i banditi tendono ad
essere dei tradizionalisti rivoluzionari.
L'altra ragione per cui i banditi diventano dei rivoluzionari è
inerente alla società contadina. Anche chi accetta lo
sfruttamento, l'oppressione e la soggezione come norma di vita, sogna
un mondo dove essi non esistano: un mondo di uguaglianza, di
fratellanza e di libertà, un mondo totalmente nuovo, privo di
male. Raramente esso è qualcosa di più di un sogno”.
Per molti banditi sociali, da Pancho Villa a Carmine Crocco, la spinta
alla rivolta nasce spesso da una profonda reazione morale a torti o
violenze di cui sono state vittime dei familiari (la madre di Pancho
Villa violentata e quella di Crocco selvaggiamente aggredita da un
signorotto locale). Nei comportamenti dei rivoltosi si distinguono
scelte comuni, come il restituire ai contadini tutto o parte di
ciò che può essere stato loro preso in tempi di
necessità; il non violentare le donne del posto; il denunciare
nomi di padroni arroganti da punire.
Se il bandito fa propri obiettivi di rivolta sociale, aggrega gruppi di
contadini animati dagli stessi interessi, differisce dal delinquente
ordinario o di professione, perchè la malavita rappresenta
l'anti-società, la negazione pregiudiziale della convivenza
civile.
Il delinquente o il malfattore aggredisce, uccide e rapina per
obiettivi immediati di autorisarcimento materiale e il prossimo
è nient'altro che oggetto di disprezzo. Si è ormai
lontani dall'immagine di Robin Hood bandito mitico della fantasia
moderna, vendicatore dei torti subiti, difensore degli umili per
solidarietà morale con i derelitti e i sofferenti. Ma l'elemento
discriminante che in ultima analisi decide della sopravvivenza del
fenomeno banditesco è la realtà economica.
Il banditismo sociale presuppone le società rurali
pre-capitalistiche, con il lavoro scarso e le tecniche agricole
arretrate. Con l'avvento dei capitalismo agrario ed industriale il
fenomeno si attenua fino a scomparire. Un confronto tra il brigantaggio
e la mafia può essere illuminante. L'organizzazione mafiosa si
sviluppa in Sicilia alla fine dell'Ottocento.
Il terreno di coltura è la crisi dei sistema parlamentare
rappresentativo, in cui la mafia s'inserisce con autorevolezza
imperiosa, scegliendo nomi e volti dei parlamentari da eleggere per poi
intrattenere con loro rapporti di affari e di speculazione. Ma la mafia
ha imparato la lezione dei brigantaggio e ha deciso di noti essere
più un elemento di criminalità anti-sistema, ma parte
essa stessa di un mondo politico da sempre corrotto e facile alla
corruzione.
I mafiosi siciliani non avevano niente da temere dal capitalismo
settentrionale; anzi, con l'aiuto dei parlamentari eletti in Sicilia
con la tecnica del voto di scambio, il terreno era facilitato per
l'intesa con capitani d'industria del Nord e con le loro voci
parlamentari. La mafia si consolida come struttura del crimine
organizzato subito dopo il 1876, con l'avvento della Sinistra al
potere, che avvia in Italia l'epoca sempiterna del trasformismo.
L'industria del Nord è occasione di arricchimento per la mafia
meridionale, non oggetto d'odio e d'invettiva come in certi programmi
di rivolta del brigantaggio. I mafiosi si collegano con le centrali
della ricchezza, con le Banche e con il mondo della ricchezza,
perchè, come dirà Gaetano Mosca, la mafia non è un
fenomeno di povertà ma si sviluppa in contesti nei quali
l'arricchimento è apparso facile e a portata di mano. Il
ribellismo sociale, invece, attecchisce nelle organizzazioni politiche
della sinistra italiana ed europea e si pone obiettivi di emancipazione
politica.
La mafia sceglie partners di governo, di fiducia, collabora con gli
ambienti della criminalità internazionale, preferisce un campo
d'azione locale più facile alle commistioni con i poteri del
posto, attraverso patti non scritti di collaborazione e di sporadica
belligeranza. Il ribellismo sociale, al contrario, nasce da programmi
di rigenerazione collettiva, si batte per un nuovo sistema economico e
per la rottura delle barriere gerarchiche nella società.
Può anche presentare una ispirazione religiosa di carattere
profetico o millenaristico, che diminuisce nella misura in cui i
programmi del gruppo organizzato si fanno più chiari, espliciti,
finalizzati ad obiettivi concreti e realistico. Nel mondo contemporaneo
cambia la destinazione della violenza. Lo scenario rurale scompare
dall'Europa come teatro di conflitto sociale, ma continua a riproporsi
per gran parte del Terzo Mondo, nel quale la violenza, alleata con il
flagello della fame, continua a mietere vittime nell'era del nuovo
disordine mondiale.
La violenza appare la legge della società contemporanea, di cui
mette in crisi fondamenta etiche e legittimazione giuridica. È
la fine progettuale delle società liberali fondate sul diritto.
La nuova divinità del mercato fa i suoi adepti e non disdegna
una pratica insidiosa di pressione e condizionamento, che impone scelte
con strategie talvolta occulte e clandestine. Oggi è assai
difficile parlare di violenza in termini generali, quasi una sorta, di
metafisica dell'annientamento dell'altro, ma è più
realistico parlare di violenze al plurale (economica, politica,
religiosa, culturale, informatica), con la tendenza strisciante
più verso la violenza simbolica che quella reale.
Nelle società a capitalismo avanzato, nelle grandi metropoli
dell'Occidente, il monopolio statale della violenza è ben
consolidato. I gruppi minoritari che ad intervalli della storia
decidono di praticarla, ricorrendo ad armamentari appariscenti, con
armi e simboli di ascendenza medievale, come nel caso di razzisti ed
anti-semiti, cercano in essa di ritrovare radici perdute,
identità politicamente compromesse.
La complessità della società industriale avanzata ha
dalla sua una riclassificazione dei ruoli dei soggetti sociali, non
più e solo padroni e contadini, che pur continuano ad esistere
in tanta parte del mondo, ma impiegati, tecnici della ricerca,
operatori dell'informazione, studenti, operai, donne e giovani.
È la nuova galassia dei malessere sociale che si dirama tra le
pieghe di quel capitalismo maturo sul quale hanno meditato le
intelligenze più moderne della sinistra occidentale, come I.
Habermas, C. Offe, J. O' Connor, ecc.
Nell'odierna realtà sociale sono in crisi tutte le forme di
rivolta (banditismo, ribellismo, rivoluzione), ed alcune di esse sono
già scomparse. Ma riflettere su di esse è indispensabile,
perchè è come un modo tutto nuovo per rileggere la storia
del mondo e delle sue parti, la sua configurazione attuale nella quale
la dicotomia geografica tra Nord e Sud continua ad essere emblematica
di una differente dislocazione della ricchezza e dei diritti, della
tradizione o della modernità.
6) NORD E SUD: IL CASO ITALIA
L'analisi delle condizioni geografiche di un paese è già
di per sè un elemento rilevante per conoscere in
profondità caratteristiche di un territorio, per prevederne
sviluppi, sfatare miti. È il caso di Giustino Fortunato,
appassionato studioso di geografia negli anni della sua formazione
giovanile, esponente di spicco del Club Alpino Italiano che aveva sede
a Napoli. C'è solo da chiedersi il perchè di tale
interessamento, non certo solo di carattere professionale. Fortunato
è chiaro oltre misura nei suoi scritti sul Mezzogiorno: la
ricchezza naturale di quelle terre è solo frutto, forse
interessato, di una leggenda priva di fondamento.
Il territorio meridionale presenta delle asperità naturali,
condizioni climatiche avverse, un dorsale appennico ampiamente esteso,
che ha reso sempre difficile un intervento razionale e risolutivo da
parte dell'uomo.
Dall'altra la mancanza di capitali e la miopia di molti proprietari
hanno contribuito a lasciare per secoli la coltivazione dei legumi
quale unica risorsa produttiva, per le necessità alimentari
locali oltre che come fonte ben limitata di mercato rionale o di zona.
La conoscenza dell'agricoltura meridionale, scrive Fortunato, è
la vera fonte, storica oltre che naturale, per risalire alle origini
del disagio economico dei Sud.
L'estensione dei latifondi, in possesso molto spesso di padroni
assenteisti, ha sottratto ampi settori dei terreno a progetti di
trasformazione fondiaria, fomentando parassitismi ed aggravando
più di una condizione contadina ai limiti della miseria e della
sopravvivenza.
Per questo, osserva il meridionalista di Rionero, senza falsa retorica
e con convinzione bisogna affermare che esistono due Italie, diverse e
distinte, conseguenza storica di un processo unitario che non ha
agevolato, nel grande momento dell'unificazione politica, l'obiettivo
di far di un paese una realtà unita.
Il Mezzogiorno, come egli scrive, è quello reso tale dalla
natura, dal clima, dalla storia, abbandonato nel momento più
delicato del suo processo di sviluppo, ma provvisto di energie e di
capacità in grado, se spinto e sollecitato, di fare da sè
sotto la direzione di uno Stato moderno ed efficiente. Ma la vera
questione del Sud è quella demaniale.
Dopo i Decreti Mancini per la vendita dei beni ecclesiastici, la corsa
all'acquisto di terreni appartenenti all'ex asse ecclesiastico,
è stata irrefrenabile. Proprietari e borghesi si sono affrettati
ad assicurarsi il possesso di ampie estensioni di campagne, molto
spesso abbandonate o non coltivate, pur non disponendo, talvolta, dei
capitali necessari per l'acquisto.
La vendita dei beni terreni è stata facilitata dal pagamento con
il sistema rateale, alimentato da ipoteche sugli immobili, che si
è attorcigliato su se stesso in mancanza di rendite Produttive.
Sicchè i proprietari, per decenni, hanno avuto difficoltà
a pagare le somme pattuite e sono stati costretti a restituire, alle
varie banche diffusesi a macchia d'olio al Sud per quella circostanza,
enormi interessi.
La conseguenza è stata oltremodo negativa, perchè il
terreno degli ex beni ecclesiastici, abbisognevole d'interventi e di
moderne tecniche agricole, o è finito nelle mani di altri
possessori per fini speculativi o è ristagnato in latifondo
parassitario.
Nasce da qui il grosso nodo dei debiti della Basilicata,
l'impossibilità a farvi fronte anche in presenza di
un'imposizione fiscale che, pur non essendo più alta di altre,
costituiva comunque un grosso carico difficile da sopportare.
Condurre in tal modo un piccolo appezzamento di terreno è stata
un'impresa per i contadini lucani, e il brigantaggio, nato come spia
del malessere della condizione contadina, ha finito con il
compromettere le prospettive della rendita fondiaria, facendo
decrescere il valore dei terreni o sospendendo, per un periodo di tempo
non certo breve, semine e coltivazioni.
Tra l'altro al Sud era venuta meno quella che Cavour aveva chiamato la
cura di ferro, cioè una diffusa localizzazione della ferrovia
per collegare i paesi dell'interno e la regione con il resto del paese,
per gli scambi e il commercio. Viaggiando in Lucania, agli inizi di
questo secolo, ma a dorso di mulo, lo statista bresciano Zanardelli si
era reso conto della drammaticità della situazione.
Proprio l'assenza di vie moderne di comunicazione lo aveva
impressionato di più, oltre che la mancanza di scuola e di
ospedali o di civili abitazioni. Senza ferrovie, dirà Fortunato,
non si costruisce un paese moderno, si rende difficoltoso lo sviluppo
di una civiltà. Quali i rimedi, allora?
L'organizzazione di uno Stato moderno, ben organizzato e fondato
sull'onestà dei suoi amministratori, può costituire un
elemento importante per il decollo politico e sociale del Sud. Ma uno
Stato che abbia la forza di essere esso stesso d'esempio ai cittadini,
per il rigore morale e la correttezza dei suoi amministratori, quasi
una sfida nei confronti di una situazione morale assai preoccupante,
nella quale avevano buon gioco vecchi e nuovi manutengoli del potere,
adusi da sempre a manovrare le leve della corruzione e dell'arroganza.
Un male che nel Mezzogiorno ha una storia antica e risale ai tempi
delle varie occupazioni straniere, che avevano generato stuoli sempre
folti di servitori e cortigiani, pronti ad offrire coperture e
protezioni.
Dirà Gabriele Pepe, in un bel saggio sull'Italia spagnola, che
nel Sud di quegli anni, e dopo, il brigantaggio ha rappresentato una
struttura portante i sostegno del potere in difficoltà, a tal
punto che allearsi con esso, per principi, aristocratici e borghesi,
era una realtà ineluttabile.
Uno Stato educatore, quindi, per Giustino Fortunato, unito ed
efficiente, esemplare per i cittadini, in grado di essere argine per
malaffare e corruzione particolarmente radicati al Sud. Basterebbe
ricordare le pagine dell'Autobiografia di C. Crocco dedicate alle leggi
che fanno gli interessi dei più forti e dei più ricchi,
che diventano così più arroganti e più violenti.
Certo i meridionalisti come Fortunato, e quindi i fratelli Spaventa,
Pasquale Villari, De Sanctis, pur con le differenze d'impostazione
politica, erano convinti che uno Stato unificato e forte, come nella
tradizione etica dello hegelismo napoletano, sarebbe stato una barriera
al dilagare della corruzione, una leva formidabile per il superamento
delle difficoltà presenti.
Solo che quello Stato, che essi teorizzavano o immaginavano, non era
all'altezza della situazione, perchè incrinato al suo interno da
incompetenza, clientele e facile carrierismo.
Nel programma dei liberali meridionali l'accento cadeva più
fortemente, e non sempre declinato in termini teorici, sulla
necessità del rigore morale e della trasparenza amministrativa,
mentre la realtà andava in direzione contraria, a tal punto che
essere incompetenti o disonesti appariva assai di rado un ostacolo a
far carriera negli impieghi e nelle professioni.
Oggi l'argomento non è più eludibile, dopo le
provocazioni della Lega e la nuova situazione politica che si è
delineata nel paese. Il dibattito storiografico si fa politico,
militante, e torna a riflettere sui nodi portanti della più
recente storia d'Italia. Lo hanno fatto, tra gli altri, Cafagna, Lepre
e Salvadori, ma non solo, e con provocazioni che aprono domande ed
attendono risposte.
Rileggendo in termini sommari la vicenda dell'unificazione italiana,
Cafagna appare assai esplicito sul rapporto Nord e Sud. Sin
dall'età moderna, ed ininterrottamente dall'età comunale,
l'Italia settentrionale è stata in grado di avviare e sviluppare
una industrializzazione diffusa, nelle campagne e nelle fabbriche,
alimentandola con un continuo ammodernamento delle reti di trasporto e
commerciali.
Naturalmente con differenze tra zona e zona e con prevalenza di
realtà territoriali, come il triangolo (Piemonte, Lombardia,
Liguria) avviato ad essere testa di ponte della modernità
industriale dell'Italia in Europa.
Le difficoltà per il Sud sarebbero venute da una politica miope
e poco attenta alle innovazioni, infarcita di retorica, visto che
l'unificazione era una richiesta dei letterati e degli intellettuali,
ma non un'esigenza dello sviluppo economico.
La diagnosi di Cattaneo federalista esclude il Mezzogiorno e si
concentra sul Nord e sull'Europa, in una prospettiva basata sul
libero-scambismo, tutta impostata in termini di sviluppo diffuso ma
priva dei condizionamenti della politica, oggetto d'odio dei federali-
sta lombardo, restìo ad entrare nel Parlamento anche da deputato
eletto.
L'aiuto al Nord, in termini di mano d'opera, si verifica nel secondo
dopoguerra, che registra un notevole flusso migratorio dal Mezzogiorno,
che rende possibile un più accelerato ammodernamento delle
regioni settentrionali.
Dall'altra, con la fine della guerra, scrive Cafagna, i capitali
affluiscono al Sud, ma sono quelli dello Stato, distribuiti con i
sistemi ben noti delle politiche d'intervento straordinario, base di
clientele e di facili fortune elettorali.
Ma questa è storia dei nostri giorni che prelude a Tangentopoli,
regno spodestato del neo brigantaggio politico. Ma come si risponde
alle lamentele ed alle provocazioni del leghismo lombardo e dei suoi
affiliati?
Aurelio Lepre rilegge, ora, la storia d'Italia alla luce di questi
interrogativi. Sta per andare in pezzi l'Unità d'Italia? Cosa si
può fare per arginare l'effetto devastante?
Anzitutto porre le basi di una nuova cultura meridionale, che abbandoni
facili rivendicazioni o stucchevoli ideologie del sudismo dotto. Il
Mezzogiorno non può attendere Pitagora o Federico II per
rinascere; il sudismo di certi intellettuali da salotto rischia di
rendere ancora più ambigua l'identità delle regioni
meridionali, compromettendone l'apertura a nuovi orizzonti di analisi e
d'intervento.
Rileggere gli anni del brigantaggio può esser utile per risalire
alle origini di una condizione meridionale che è frutto di
responsabilità politiche molteplici, alle quali hanno dato gran
parte del loro contributo scelte economiche e culturali radicate sia al
Nord che al Sud.
Per questo il processo di unificazione va rivisto integralmente, letto
nelle sue pieghe più riposte, per individuare il filo rosso di
quel moderatismo permanente che ricollega il presente al passato, la
corruzione di ieri all'odierna Tangentopoli, rendendo sempre più
urgente il bisogno di una opinione pubblica che abbia suoi codici
culturali, frutto di una educazione di massa moderna e scientifica, che
non c'è stata.
Il guaio della politica italiana, commenta G. Fortunato, è che
la pubblica opinione non esiste, perchè si fa nei circoli
ristretti, nei giornali che leggono in pochi, nelle accademie che
formano cortigiani. E la politica diventa fatto di leadership da
ammirare, di personaggi da costruire, con le tecniche più
raffinate della democrazia elettronica. Del resto, e a modo suo, anche
Carmine Crocco era diventato un personaggio, riverito ed ammirato da
ricchi e poveri, da forti e deboli, e continuò ad esserlo anche
da prigioniero, allorchè nel transito delle varie stazioni, pur
incatenato e reso inerme, costituiva oggetto di curiosità e
meraviglia.
7) PER UNA STORIA DEL FEDERALISMO MERIDIONALE
La polemica contro lo Stato accentratore accomuna, sin dalla fine del
secolo scorso, intellettuali e politici del Nord e del Sud,
preoccupati, con motivazioni diverse, a difendere un ideale politico di
unità in cui le autonomie regionali e locali fossero in grado di
produrre istituzioni e strutture degne di un paese moderno.
Il federalismo di Cattaneo, nato in un'area come quella lombarda,
aperta all'Europa, non fa cenno a problemi del Mezzogiorno, con
esclusione della Sardegna. Ma il suo pensiero sarà fatto
proprio, o influenzerà in snodo non secondario, meridionalisti
critici della prassi plebiscitaria seguita nel processo unificatorio
del 1860.
La critica dello Stato centralista si sviluppa nel contesto di
un'analisi che punta all'ipotesi di un'industrializzazione incentrata
su idee di investimento autonomo e libero, al di fuori di vincoli
burocratici e secondo i suggerimenti della più avanzata scuola
di economia liberale. Il federalismo si delinea come una soluzione
capace di tutelare le tendenze autonome della società e degli
individui, di avviare una legislazione fondata su autonomie regionali
nelle quali concentrare l'amministrazione di servizi indispensabili per
la comunità locale.
L'unificazione, al contrario, ha imposto una linea di politica
amministrativa favorevole ad un timido decentramento (da Rattazzi a
Minghetti), inteso come articolazione in periferia dello Stato
nazionale. Con il passar degli anni, dopo l'eliminazione del pericolo
sia del brigantaggio che della opposizione della Chiesa, il governo
centrale approda, in età giolittiana, ad una Legge sulle
autonomie locali in cui i processi di decisione sono affidati ad organi
che sono emanazione del potere centrale.
Si pensi alla nomina regia del sindaco, al censo elettorale, alla
presidenza della Deputazione provinciale affidata al Prefetto, e ci si
renderà conto degli esiti di una politica nazionale che aveva
fatto propri i caratteri più negativi del moderatismo
conservatore.
Gli attacchi dei federalisti meridionali esplodono in quella
circostanza, ma sono alquanto attivi, anche prima, sin dagli anni '90
del secolo scorso. Molti di essi (N. Colajanni, E. Ciccotti, Luigi
Sturzo, G. Salvemini, G. Dorso, T. Fiore) pongono al centro
dell'attenzione le conseguenze negative dello Stato centralista, sul
quale si erano illusi i liberali meridionali.
Con argomentazioni diverse, e partendo dal presupposto che la
realtà del Sud ha delle peculiarità economiche e sociali
di cui tener conto, i federalisti del Sud individuano con maggior
realismo le cause del malessere meridionale. Mentre i limiti di governo
dello Stato nazionale appaiono al Colajanni una disfunzione grave che
facilita anche la connivenza con le forze della malavita organizzata,
per Ciccotti il sottosviluppo del Sud è la conseguenza di una
strategia economica del capitalismo che è decisa nelle regioni
del Nord a scapito delle genti più povere del continente.
Lo Stato oppressivo e fiscale è pure al centro della critica di
don Sturzo, favorevole ad una diversa articolazione delle regioni e
della loro vita politica, al di fuori di condizionamenti clientelari.
In queste teorie di Sturzo è presente un certo autonomismo di
origine cattolica che punta sul primato della società civile ed
immagina le istituzioni proiezioni di essa.
Nel federalismo salveminiano il regionalismo, in quanto espressione di
decentramento burocratico dello Stato centrale, è l'esatta
antitesi del federalismo. Il regionalismo è la base della
corruzione e delle clientele, è il localismo degli interessi,
è la fine della democrazia rappresentativa. Ma il federalismo
è da intendere strettamente intrecciato con la concessione del
suffragio universale, per dare ai ceti poveri, operai e contadini,
l'opportunità concreta di contare nelle scelte della vita
politica.
La polemica salveminiana contro il giolittismo nasce dalla convinzione
che quel regime, basato sul sostegno delle forze moderate dei
riformismo socialista e cattolico, rappresentava la negazione dei
principi di libertà e di autonomia reale. La libertà,
aveva scritto Cattaneo, è una pianta dalle molte radici. Il
federalismo meridionale si confronta con il tema del regionalismo anche
sulle riviste gobettiane, con articoli di T. Fiore.
La rivendicazione della libertà comunale ne è alla base,
perchè in passato il comune costituiva il simbolo del potere
reazionario, a tal punto che i briganti, nell'assaltarlo e
distruggerlo, si preoccupavano di dare alle fiamme tutti i documenti
ufficiali attestanti le proprietà della terra. Il progetto
dell'Autonomismo è centrale nella prospettiva di G. Dorso,
consapevole delle responsabilità storiche di quella borghesia
parassitaria, sulla quale si era pure scatenata la rabbia incontenibile
dei briganti.
L'idea federalista è fallita nella realtà politica
italiana, perchè sin dall'Unità è prevalsa una
linea dell'accentramento che ha visto il prevalere di tre forme dello
Stato accentrato (amministrativo nell'età liberale, nazionale
nel regime fascista, partitocratico negli anni della Repubblica).
L'obiettivo di affidare alle realtà locali e regionali, nella
loro configurazione istituzionale, il compito di essere momenti vivi di
mediazione tra la società e lo Stato, è stato, di volta
in volta, impedito dall'accentramento burocratico, dal nazionalismo
esasperato e dalla partitocrazia dei nostri anni.
I partiti politici si sono progressivamente caratterizzati come
macchine per la cooptazione dei funzionari, con enorme
difficoltà ad attivare forme concrete di democrazia interna e
locale. Tra gli altri appuntamenti politici perduti, quello con la
soluzione dei problemi meridionali è stato il più
eclatante.
Lo stesso Pds, ex Pci, nato in anni lontani da una severa analisi della
questione meridionale, oggi è una realtà delle regioni
dell'Italia centrale, separato al Nord dalla Lega e al Sud da Forza
Italia e da Alleanza Nazionale. L'ultima stagione del brigantaggio
politico è annegata nello scandalo di Tangentopoli, in quella
Milano capitale-simbolo dell'Italia unita nell'affarismo e nella
corruzione.
Saprà la seconda Repubblica rimediare agli inconvenienti della
prima? Se, come ha scritto Salvadori, l'immobilismo delle parti,
governo ed opposizioni, ha bloccato lo sviluppo della democrazia in
Italia, tra ieri ed oggi, il decisionismo liberista della seconda
Repubblica potrà veramente essere una garanzia di vita
democratica? Nell'era della democrazia elettronica la risposta non
può essere lasciata ad un magnate dell'informazione.
Nell'età dell'informatica si controlla via etere l'opinione
pubblica negli interessi strategici delle multinazionali
dell'informazione; come, al momento dell'unificazione del paese, Chiesa
e reazione si servivano dei briganti per impedire un processo, peraltro
ambiguo, di modernizzazione del paese.
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