Accanto a quei settori produttivi che potevano svilupparsi sulla trasformazione di materie prime agricole o della pesca, nell'Ottocento i calabresi tentarono anche la strada dell'industrialesimo staccato dalle vocazioni del territorio. Si avviò con un promettente settore industriale di pura trasformazione di materia prima anche importata. Ed e' questo il caso delle concerie. L'edificio a quattro piani, i cui due superiori sono chiaramente aggiunti, ora destinato ad Istituto religioso, e' quanto resta della fabbrica per concia di cuoio e pelli, fondata a Tropea, nel 1825, dall'imprenditore Mazzitelli.
Realizzata alla marina, vicino al porto, ed alimentata da due ruscelli,
la fabbrica entrò in produzione nel 1827. La spesa iniziale
ammontò alla somma cospicua di 40.000 ducati, che comunque nei
quasi trenta anni di attività, si rivelarono un ottimo
investimento. Alla morte del proprietario la fabbrica fu ceduta per una
somma tre volte maggiore di quella iniziale, mentre l'utile annuo era
oscillato dal 4 al 7 per cento del capitale investito.
Il Mazzitelli si avvalse sin dagli inizi di maestranze francesi, ed
assunse un direttore, un capo operaio e quattro cuoiai di Marsiglia,
città famosa per concerie e per fabbriche di saponi. Dopo i
primi quattro anni non incoraggianti, un ulteriore finanziamento di
20.000 ducati, ed un nuovo direttore, sempre francese, lanciarono
definitivamente la fabbrica, al punto che, una diecina d'anni dopo, il
Mazzitelli, con altri soci, aprì una seconda conceria a Tropea.
II successo dei prodotti era assicurato dalla bontà della concia
di sughero della regione e dalla razionalità dell'impianto
produttivo delle due fabbriche. Il ciclo lavorativo durava da sei mesi
a un anno e trasformava pelli appena scuoiate, soprattutto di vitello,
in suole e pelli ammorbidite. Nella "Riviera" i cuoi venivano puliti
con soluzioni di calce; nella "Correderia" venivano poi seccati,
compressi e colorati.
Per rendere le pelli morbide veniva usato anche olio di balena. Le due
fabbriche, intorno al 1840, impiegavano circa 80 operai. Esportavano
soprattutto nel Regno, a Trieste, Marsiglia ed Olanda ed ottennero
premi e riconoscimenti in mostre e fiere nazionali.
In Calabria era già sviluppata dai primi dell'Ottocento la distilleria del vino e della frutta per la produzione di spirito. Le fabbriche del settore, soprattutto reggine e cosentine, pur se di piccole dimensioni, avevano conquistato un mercato che, spesso, superava i confini regionali. Tra le distillerie ancora superstiti, attive più a lungo ed interessanti architettonicamente, c'e' quella Mazzorano di Gioia Tauro.
Realizzata verso la fine del 800 per la lavorazione delle sanze,
raggiunse in breve una dimensione rilevante con oltre 6.000 metri
quadrati di superfice. Ceduta alla Societa' Calabro-Lombarda, fu infine
acquisita dalla Gaslini agli inizi del 1930 e restò attiva fino
alla guerra mondiale. L'impianto ed alcuni particolari architettonici
sono di grande interesse.
La fabbrica costituisce uno di quegli esempi di "archeologia
industriale" per i quali e' auspicabile il restauro ed il recupero per
attivita' sociali in modo da contrastare il degrado che in breve
finirebbe per distruggerla.
Nel bel museo napoletano voluto da Riccardo discendente di Carlo Filangieri, sono conservate importanti testimonianze della cultura e delle arti meridionali. Cimeli di famiglia si mescolano a testimonianze che furono parte della storia dello sviluppo dell'industria nel meridione ed in Italia.
Qui sono conservati i quadri commemorativi dei primi due ponti sospesi
italiani, costruiti nel 1829 sui fiumi Garigliano e Calore, le cui
strutture di ferro furono realizzate in Calabria. Catene, maglie,
bulloni progettati dall'ingegnere napoletano Luigi Giura furono fusi
nella fonderia statale di Mongiana ed in quella privata fondata nel
1824 dal principe Carlo Filangieri di Satriano, a Razzona di Cardinale.
La ferriera dei Filangieri si inseri' nell'antica tradizione di
fonderie calabresi, attive gia dal 1000, e che, dalla fine del 1700
aveva avuto un vigoroso impulso con la fondazione del nuovo centro
siderurgico governativo di Mongiana, nei boschi delle Serre, che
lavorava il minerale di ferro estratto dalle miniere di Pazzano.
E fu proprio la presenza di abili artigiani per la lavorazione del
ferro che permise ai Filangieri di stabilire in Calabria una ferriera,
poichè, come privato, non poteva utilizzare il minerale,
estratto dalle vicine miniere statali di Pazzano, e fu quindi costretto
ad importarlo dall'isola d'Elba. Ma nonostante il considerevole onere
del trasporto della materia prima, la ferriera crebbe rapidamente,
iniziò con una sola fucina a tre fuochi, e via via si
ampliò: dopo soli 10 anni aveva 3 fucine ad 8 fuochi ed un
maglietto, con circa 200 operai addetti nei diversi settori.
La ferriera fu quasi completamente distrutta dall'alluvione del 1855;
restata inattiva per alcuni anni, fu infine venduta con i boschi che la
circondavano e che erano serviti ad assicurarle la legna per
ralimentazione dei forni.
Si producevano soprattutto pani di ferro che venivano poi trasportati a
Napoil per essere trasformati. In alcuni casi, però, come per i
ponti, la fonderia produsse manufatti completi. Come dicevano i
francesi "Pas de fer sans foret" -- "Niente ferro senza foresta".
Infatti l'enorme quantità di legna che trasformata in carbone,
serviva alle fucine delle ferriere, già alla fine del 1500 aveva
richiesto il sacrificio di grandi estensioni di boschi.
E, ogni volta, le ferriere, per non allontanarsi troppo dai boschi,
erano costrette a rincorrerli, itinerando sul territorio. Anche in
Calabria, le antiche ferriere statali di Stilo, gia funzionanti sotto
il governo angioino, aragonese, e poi durante il vicereame spagnolo,
erano in uno stato di agonia per l'eccessiva lontananza di boschi
ancora vergini.
Per porre fine a questo stato di precarietà e per poter
realizzare una moderna e complessa fonderia stabile, che richiedeva un
investimento oneroso, Ferdinando IV di Borbone decise di crearne una
nuova.
La commissione incaricata di stabilire la nuova località, scelse
la confluenza di due fiumi, l'Alaro ed il Ninfo, che potevano
assicurare la forza motrice, al centro di una grande estensione di
alberi secolari di faggio e abeti, in una zona a cavallo tra i due
mari, lo Ionio e il Tirreno. Iniziata l'8 marzo 1771, sotto la
direzione di Francesco di Conty, la fonderia di Mongiana potè
dare i primi prodotti solo intorno al 1780.
La costruzione aveva richiesto tempo: si dovette anche livellare il
corso dei due fiumi per poter creare le cadute d'acqua necessarie a
produrre il movimento di ruote e meccanismi dei processi di fusione. Il
Gioffredo, architetto reale, progettò queste opere idrauliche.
Dalle viscere dei monti di Pazzano veniva estratto il minerale di ferro
che era poi trasportato a Mongiana. Per migliorare le tecnologie, il
governo inviò da Napoil a Mongiana gli scienziati Tondi,
Melograni, Savaresi e Faicchio, reduci da un viaggio di aggiornamento
in alcune tra le più industrializzate nazioni europee,
Inghilterra, Francia, Sassonia. I sistemi di scavo furono migliorati e
furono aperte nuove gallerie che si rivelarono molto ricche.
Si riorganizzò la forestazione e la carbonizzazione,
regolamentando il taglio dei boschi secondo cicli che rispettavano i
periodi della riproduzione. I sistemi che ancora oggi usano i carbonari
delle Serre sono sorprendentemente simili a quelli descritti dai
botanici agli inizi del 1800.
I successivi eventi politici, (la Repubblica napoletana del 1798 e
l'inizio dell'era murattiana) ebbero un'influenza negativa
sull'attivita manifatturiera del Regno ed anche su Mongiana. Eppure fu
proprio Gioacchino Murat ad imporre il decollo di Mongiana. Costretto
dal blocco francese a dare impulso alla siderurgia, settore vitale per
l'economia e l'indipendenza del Regno. Il paese sorto intorno alla
fonderia in quel decennio si sviluppò rapidamente con la
costruzione di nuovi edifici e di abitazioni per gli operai.
NeI 1814 Mongiana triplicò la sua precedente produzione ed
arrivò a 14.000 quintall di ferro, mentre fu decisa la
costruzione di una fabbrica per componenti di fucile da assemblare poi
nella Fabrica d'Armi di Torre Annunziata. Dopo il breve e fortunato
periodo napoleonico, al ritorno dei Borboni subentrò un primo
periodo di assestamento politico che raffreddò nuovamente le
iniziative industriali de Regno. Ma dal 1820 vi fu un cambio di
tendenza nella politica del governo e la ripresa divenne sempre
più consistente.
Con Ferdinando II, nel 1830, per il paese iniziò un periodo di
operosità in un clima di riconquistata stabilita politica, pur
se contrastata da ingerenze straniere, dell'Inghilterra soprattutto,
che aveva in concessione lo sfruttamento dei giacimenti di zolfo
siciliani e del carbon fossile calabrese, e che mal vedeva il
rafforzarsi del Regno napoletano.
Al fervore di iniziative promosse da giovane sovrano aderirono anche i
privati. I settori tessile e metalmeccanico, in modo particolare,
ebbero un rapido sviluppo, grazie anche al cospicuo afflusso di
capitali stranieri che seguivano con interesse la politica economica
del Regno ed i suoi progressi tecnologici. Nel Napoletano si
consolidò la cantieristica col varo di numerose navi, tra cui
"Il Ferdinando", primo vascello a vapore italiano.
Mongiana beneficò di questa espansione delle manifatture e dei
consumi, ed alla fonderia, nuovamente ampliata verso la fine del 1840,
si affiancò il completamento della fonderia succursale della
Ferdinandea, vicino Stilo, un interessante complesso dall'elegante
disegno planimetrico, con reparti produttivi, appartamenti reali e per
la truppa.
Oggi, purtroppo, l'accesso al complesso e' proibito dalla
Società che lo ha di recente acquistato impedendo la visita ad
uno dei monumenti più suggestivi ed interessanti della regione.
Anche la viabilità fu migliorata e fu aperto un nuovo tracciato
per il porto di Pizzo, da cui venivano imbarcati i prodotti.
Furono realizzate complesse opere di ingegneria e fu migliorato e
completato il grande collegamento viario Napoli-Reggio che, fino
all'apertura dell'Autostrada del Sole e' restato l'unico asse a unire
la Calabria e la Sicilia al centro Italia.
Lo stabilimento si arricchì di una moderna ed elegante Fabbrica d'Armi, progettata nel 1852 dall'architetto Domenico Savino influenzato dal neoclassicismo allora di moda anche negli edifici industriali.
Particolarmente nuovo ed interessante e' l'uso della ghisa per la
realizzazione delle colonne dell'atrio come simbolo delle
attività dello stabilimento, quasi un'immagine pubblicitaria. La
nuova Fabbrica era divisa in tre edifici degradanti lungo la china del
colle, addossati al corso del fiume Ninfo da cui ricavavano la forza
motrice. Vi era l'officina per i "limitatori di pezzi da batteria", e
per i "fucinatori di canne e armi bianche".
Nell'edificio, oltre agli uffici ed ai depositi, vi era anche la scuola
per i figli degli operai. Fino al 1858 i pezzi prodotti dalla Fabbrica
erano spediti per l'assemblaggio alla Manifattura di Torre del Greco.
Dopo l'installazione di una macchina per rigare le canne, Mongiana
inviò fucili completi, pronti ad entrare in dotazione ai vari
corpi militari.
II personale impiegato nella Fabbrica d'Armi oscillò tra cento e
duecento addetti mentre in tutto il complesso di Mongiana lavoravano
quasi 1.500 operai. In parte gli operai erano assunti come "filiati",
cioe' esentati dal servizio di leva, ma in cambio restavano in forza
allo stabilimento per dieci anni; gli altri, invece, pur avendo un
rapporto di lavoro libero, regolato da reciproci diritti e doveri,
erano obbligati a costruirsi l'abitazione a proprie spese. II
villaggio, per la sua importanza strategica, era sotto il controllo del
Corpo di Artiglieria, al cui comando vi era un colonnello con la
funzione anche di sindaco.
Durante il periodo borbonico, nonostante il governo non fosse
particolarmente indulgente con il ceto operaio, le condizioni di vita
degli addetti a Mongiana ed alle miniere di Pazzano non raggiunsero mai
i livelli quasi sempre drammatici di altre nazioni, sia in Italia che
in Europa. Mancò totalmente lo sfruttamento delle donne ed il
lavoro minorile fu limitato a funzioni gregarie, con orari di lavoro
ridotti.
I ruderi della Fabbrica d'Armi, distrutta dapprima dall'alluvione del
1854 e poi dall'abbandono nel quale precipitò lo stabilimento
dopo l'Unita' d'Italia, sono appena una pallida memoria, sconosciuta
agli stessi calabresi d'oggi, di quelli che furono i successi ottenuti
da Mongiana in fiere ed esposizioni a Napoli, Firenze, Londra.
La fonderia con i suoi tre altiforni, tra i piu' alti dell'intero
panorama siderurgico italiano dell'epoca, e con le modernissime
macchine a vapore importate dall'Inghilterra, reggeva bene il confronto
in campo nazionale, e sfornava circa 4.000 quintali annui di ghisa, il
20% del totale prodotto nel Regno delle Due Sicilie. Chiusa la Fonderia
dopo l'Unita', la Fabbrica d'Armi fu dapprima declassata ad officina
riparazioni e poi chiusa anch'essa.
Nel 1873, infine, l'insieme degli stabilimenti venne ceduto all'asta a
privati e comperato dall'ex sarto garibaldino Achille Fazzari, che,
dopo aver invano tentato di riprendere l'attività lo chiuse
definitivamente.
Ai sensi della legge n.62
del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e
del web@master.