LIBORIO ROMANOAI SUOI ELETTORI |
Stultorum incurata pudor malus ulcera celat.
HORATIUS
La mia età, e le condizioni di mia salute non più mi consentono le gravi cure parlamentari; ed io volentieri mi ritraggo da un aringo, elle sento di non poter bene assolvere. Continuerà non pertanto dal mio gabinetto, e sino all'estremo mio respiro a propugnare i principii, che sono stati e sono il desiderio più vivo della mia vita.
Dal mio Rendiconto Politico, che sarà tosto pubblicato, conoscerete quel poco che le circostanze, ed i casi mi permisero di fare pel paese nelle Ire volte in cui tenni il potere; e potrete ancor meglio giudicare degli addebiti, che mi mossero contra la calunnia o invidia, dei quali voi stessi faceste giustizia, col suffragio di che vi piacque onorarmi, eligendomi in nove collegi.
Sento ora il debito d'intrattenervi brevemente di ciò che feci in adempimento del vostro mandalo. e di quel che a me sembra che la patria domandi da voi nelle nuove elezioni.
Quai fosse la mia politica, già vi è noto dai miei atti governativi: le mie dimissioni date il 12 marzo 1861 al Consglierato di Luogotenenza sopra gl’Interni, e la mia lettera al Conte di Cavour del 13 maggio di quell’anno sulle condizioni delle province napolitane, vi rivelarono ancora le mie convinzioni sul disastroso indirizzo governativo, che d’allora in poi ha senza posa travagliato il paese.
Mentre tutta Italia inneggiava al Conte di Cavour, ed al suo gabinetto; colle dimissioni e colla lettera anzidette, io proclamai le loro gravissime colpe governative verso le province meridionali in particolare, e verso l’intera Penisola in generale.
Lamentai, che mancate le speranze concepite alla pubblicazione del programma del Principe Luogotenente, eran surte positive e profonde divergenze nel seno del Consiglio (); mi dolsi della costante resistenza, con cui mi si attraversò l’organamento e l’armamento della Guardia Nazionale, diffidandosi di essa (); dei promessi e non dati mezzi pecuniari per le opere pubbliche (); degli ostacoli che altri frappose a procurarli (); dissi che preoccupata l'opinione pubblica da una mala contentezza, il governo più non godeva il suffragio di quella maggioranza, che proclamò il memorando plebiscito; e proposi:
» 1. Riformarsi prontamente e radicalmente il Consiglio di Luogotenenza».
» 2. Prendersi le più energiche misure per tutelare l’ordine, e la pubblica sicurezza, mercé la cooperazione dell'esercito e della Guardia Nationale».
» 3. Organarsi ed armarsi questa immantinenti».
» 4. Procedersi senza indugio al prestito dei 23 milioni di lire, e chiedere di urgenza al Parlamento più larghi sussidii per le opere pubbliche».
» 5. Moralizzarsi i diversi rami della pubblica amministrazione, chiamando al servizio del paese tutti gli onesti cittadini, a qualunque gradazione appartenessero.
Coteste mie dimissioni furono accolte dall’egregio Principe Luogotenente, con dichiarazione di non potersi fare a meno di apprezzarne le ragioni, e digrata memoria del concorso da me prestato al governo.
Ma nel fatto la Luogotenenza non declinò una linea dal suo erroneo sistema, ed il governo centrale, ferito al vivo dalle verità scritte nelle mie dimissioni, mi fece segno alla più animosa avversione, la quale passò dall’uno all’altro de’ successivi gabinetti Italiani; ché tutti seguirono lo stesso funesto indirizzo. Pertanto io non cangiai di propositi, e novelli fatti vennero a ribadire le mie convinzioni.
Tali cose premesse, dirò brevemente di alcune mie discussioni parlamentari, tralasciate le altre di minor momento.
Nella tempestosa tornata del 19 aprile 1861, in cui l’onorevole barone Ricasoli interpellò il Ministero sullo scioglimento dell’esercito meridionale, ed il general Garibaldi rivolse risentite parole al Conte di Cavour e al general Fanti Ministro della guerra, presi anch’io la parola, e dimostrai che ingiustissimamente erasi sciolto in massa l’esercito napolitano. Imperciocché, se in esso vi erano dei tristi, che conveniva espellerne, non vi era difetto di buoni soldati ed ottimi ufficiali, che avrebbero dovuto fraternamente abbracciarsi. Che immeritato era l'oltraggio con cui erasi detto indistintamente a coloro che abbandonarono la causa regia, per seguire le nazionali inspirazioni, voi siete traditori; agli altri che si batterono, e si sbandarono, perché mal comandati dai loro generali, voi siete vigliacchi; ed a coloro che pugnarono a Gaeta e sul Volturno, voi siete tinti del sangue di una guerra fratricida. Era pur forza confessarlo, che i soldati napoletani ogni quai volta furono condotti da buoni capitani, pugnarono da prodi, né spento in essi si vide giammai il valore, che operò i prodigi di Barcellona, di Danzica, della Beresina, della ritirata di Lombardia, di Goito, di Curtatone.
Combattei le assertive del Ministro della guerra, che diceva mancar Napoli d’istituzioni militari. Dissi, che nell’organamento dell’armata nazionale era prudente, sano, utilissimo consiglio, giovarsi di tutte le forze vive del paese, di tutt’i buoni, che appartenevano si all’esercito reale, e si al glorioso esercito. meridionale.
Dominato infine dal sentimento, che ha sempre informata la mia politica, quello cioè della concordia, in cui credeva e credo star la forza, chiusi il mio dire con queste parole:
» E questo provvedimento, io credo fermamente, o signori, sarà l’iride di pace, il foriero della concordia di due grandi principii, di due sommi uomini, di due sublimi virtù, la virtù della mente e del cuore, del Conte di Cavour e del general Garibaldi.
Mi ebbi il plauso della Camera e delle tribune; ma nulla fecesi di quel ch’ io proponeva.
Peggiorarono pertanto le condizioni delle province napolitane, ed il Conte di Cavour, meglio ragguagliato intorno alle mie intenzioni, m'invitò a discutere con lui sulle cose di Napoli. Io vidi poco opportuna quella discussione, ed a prepararla, stimai scrivergli una lettera, in cui discorsi a lungo dei gravi errori del suo Ministero, i quali ritenni dipendere da dieci precipue cagioni, che chiamai le dieci piaghe dell’Italia meridionale; ed erano queste:
1. Il non aver tenuto il debito conto della diversità di carattere dei popoli che s’intendevano fondere ed unificare;
2. L’anomala ed incostituzionale istituzione delle Luogotenenze;
3. L’errore di voler servire all’unificazione mercé le istituzioni e i modi di governare tolti dal Piemonte; onde non eravi nel governo unità di sistema, principio, mezzi e fine determinati, non giustizia distributiva, ma espedienti governativi, personali favori, una consorteria, un partito.
4. La improvvida importazione delle leggi piemontesi nelle province meridionali, la quale fece nascere il concetto che volevasi piemontizzare non unificare l’Italia. E nel vero, meglio si sarebbe provveduto all'unificazione, se da prima si fosse atteso alle leggi politiche, e di poi alla formazione degli organici. Lo Statuto richiede non poche riforme; più essenziali ne reclama la legge elettorale; ed è pure supremo bisogno una legge sulla Guardia Nazionale comune a tutta Italia: esigevano gli organici le successive cure del governo, e del Parlamento; e le ultime i Codici, come opera più lunga, e più difficile.
5. L’inconsulto scioglimento degli eserciti napolitano, e meridionale, come della marina napolitana.
6. Le tristi condizioni della finanza, per effetto di rovinose vendite di considerevoli parti le di rendita iscritta,a prezzi molto inferiori a quelli che correvano in borsa; per l'inopportuno toglimento delle linee doganali innanzi che la finanza italiana fosse stata unificata; per la prematura applicazione delle tariffe piemontesi al napolitano; per non essersi portato severo esame suite antiche e sulle novelle pensioni, e per essersi abusato del danaro del Banco dei privati, della Cassa di Sconto, e della Cassa di Ammortizzazione.
7. L’esserei del tutto trascurate e neglette le opere pubbliche, mentre qui il popolo, afflitto dal caro dei viveri, chiedeva pane e lavoro.
8. Il tardivo ed incompiuto organamento ed armamento della Guardia Nazionale, dopo che il sangue italiano era corso per le province napolitane i e per le stesse vie di Napoli
9. Il non essersi sottoposto a rigoroso scrutinio il personale delle pubbliche amministrazioni, affin di depurarle e moralizzarle.
10. E da ultimo non mancai osservare all’onorevole signor Conte: ch'egli sommo diplomatico, non avea mostrato pari valore nella civile amministrazione,
Che incostituzionalmente reggeva due ministeri;
Che lo scioglimento ed il riordinamento da lui fatti della marina napolitana erano stati impolitici, ed ingiusti.
Che il gabinetto non era quello che avrebbe dovuto essere.
Ch’era d’uopo stabilire la pianta organica del personale amministrativo; ridurre la burocrazia al numero strettamente necessario; e diminuire i soldi.
Che tuttavia rimanevano in officio persone, su cui pesava la più compiuta impopolarità, e la generale riprovazione.
Che il senso morale del popolo era rimasto profondamente colpito e commosso da parecchie nomine a cospicui impieghi in favor di taluni tristi nei loro antecedenti, od incapaci, e n’erano stati esclusi coloro che rappresentavano l’elemento vivo del paese.
Che, soppressi gli ordini religiosi, l’umanità e la giustizia reclamavano si fosse immantinenti provveduto alla sussistenza di coloro che ne faceano parte.
E conchiudendo, rivolsi al signor Conte queste precise parole:
» Ond’io istantemente, e vivissimamente la prego, onorevolissimo signor Conte, a far si che tutte le cagioni di dispiacenza (che derivano, come ho detto, dagli errori governativi già molti e gravissimi) cessino in ogni parte d’Italia, e tutti i suoi figliuoli concordi cospirino a farla indivisibile ed una, indipendente, e temuta».
» Sara questa per lei una gloria novella, e di ogni altra maggiore».
Il signor Conte, colla superiorità della sua mente, che amava in tutto la più larga discussione, lungi dal dispiacersi della mia lettera, ebbe in pregio la mia franchezza, e mi fece novelle premure a volermi abboccare con lui, nella sicurezza d’intenderci sul da farsi. Accettai l’invito, e la proposta discussione. Egli riconobbe lealmente, essere stato sulle cose di Napoli tratto in errore dagli stessi napolitani; mi promise darvi pronto riparo; e dalle gravi confessioni che mi fece, io debbo per onor del vero dichiarare, che confidai nelle sue promesse, come sono ora convinto che le avrebbe attenute, se morte acerba non lo avesse tolto all’Italia. Ma i successivi gabinetti, che pur si dissero continuatori della sua politica, fecero del paese quelle sgoverno, che ci ha costalo tante umiliazioni, e tanta rovina.
Rimanendo per ciò saldo nelle file della opposizione, spinsi le mie interpellanze del 12 luglio 1861. Con esse toccai da prima delle riforme da me proposte nelle mie dimissioni del 12 marzo 1861, e della necessità d’una legge sulla Guardia Nazionale comune a tutta Italia: indi senza reticenze addebitai al governo molte gravi colpe. Le principali fra esse furon quelle che si riferivano alla pubblica sicurezza, alle opere pubbliche, ed alla finanza. Accennerò per sommi capi quel che dieu.
L’inconsulto scioglimento degli eserciti borbonico e garibaldino aveva sullo scorcio di gennaio 1861 di molto accresciuti la reazione e lo scontento; l'una e l'altro erano grandemente alimentati dal caro dei viveri; questo e quella facevano invito al brigantaggio.
Oud’io, quai Consigliere di Luogotenenza sopra gl’Interni, proposi, e le mille voile insistei, perché immantinenti si organasse ed armasse la Guardia Nazionale; si spingessero alacremente le opere pubbliche. Ma le mie insistenze rimasero sempre prive di effetto; tra perché, come ho di sopra accennato, si diffidò dell’arma cittadina; e perché le somme promesse per invertirsi in opere pubbliche, non furono giammai date.
Cresceano pertanto la reazione, e il brigantaggio; e il Ministero, non prima della metà di aprile 1861 (quando, giova ripeterlo, il sangue cittadino era corso per le province napolitane e per le stesse vie di Napoli) inviava quivi soli quarantamila fucili, buon numero dei quali trovossi inidoneo agli usi di guerra. Sicché coi fucili precedentemente distribuiti, e con gli altri che si rinvennero servibili, tra quelli inviati da Torino, potè agguerrirsi un quarto a pena della Guardia Nazionale delle province napolitane.
Peggio ancora procedeva il governo circa le opere pubbliche.
Con decreto degli 8 gennaio 1861, si dispose che dieci milioni di lire si anticipassero dalle finanze centrali alla tesoreria napolitana, perché fossero invertiti nell’immediato incominciamento dei lavori pubblici nelle province meridionali ().
Ai 23 del mese stesso io proposi, e fu sancito il decreto che statuiva spendersi cinque di quei dieci milioni in opere pubbliche comunali, ossia in costruzioni e riparazioni di strade ordinarie nel Napolitano.
Di tali cinque milioni feci pure la ripartizione tra le diverse province, spinsi vigorosamente l’esecuzione del decreto, ed i lavori furono incominciati.
Ma né i dieci né i cinque milioni furono giammai inviati dal governo centrale alla tesoreria napolitana; onde oltre allo scredito dei governo stesso, due gravissimi mali ne seguirono:
Mancato il lavoro, ed il pane, non pochi di coloro che ne abbisognavano, accrebbero le file dei brigantaggio e della reazione.
Le stipulazioni sulle strade ferrale si fecero a condizioni più onerose; perciocché la mancanza di strade ordinarie rendeva più difficile, più dispendiosa, e meno produttiva l’opera delle ferrovie, secondo che l'istesso Ministro de’ Lavori pubblici osservava nella Camera dei deputati.
In ordine alle sperpero ed abuso della finanza, le mie interpellanze stavano in questi fatti:
Ai 19 gennaio e 13 febbraio 1861 il governò vendé alla Casa Rothschild due partite di rendita iscritta, l’una di seicentosessantamila, e l’altra di novecentosessantottomila lire, la prima al 74 per 100, mentre il corso in borsa era al 79, la seconda al 75 per 100, laddove in borsa vendevasi al 78.
Si concessero inoltre alla Casa compratrice tali e tanti favori circa il pagamento del prezzo, e le successive vendite di rendita per parte del governo, ch’ella potè trarne ancora considerevoli vantaggi.
Il Dittatore Garibaldi con decreto del 12 settembre 1860, dichiarò beni nazionali quelli che possedeva l'ex-Casa reale di Napoli, gli altri messi alla disposizione dell’ex Re, i maggiorati reali, ed infine quanto possedeva l’Ordine Costantiniano: non pertanto non figuravano sul bilancio dello Stato le rendite di quei beni, che ascendevano a più milioni di lire ().
Con altro decreto della Luogotenenza Carignano del 17 febbraio 1861, si autorizzò la Zecca di Napoli a coniare le monete Italiane di bronzo con l'effigie di Vittorio Emmanuele. Quello stabilimento costava allo Stato meglio di quattrocentottantamila lire per anno. Stipulavasi intanto col signor Estewant, rappresentante della Casa Colombier, un contratto di appalto per la coniazione di dodici milioni di moneta di bronzo, senza che di alcuna delle prescritte solennità si facesse precedere. Negavasi cosi alla Zecca di Napoli di coniare quei dodici milioni di moneta, mentre si concedeva alla Zecca di Bologna di coniare monete pel Milanese; e quel ch’era più, si pagavano alla casa Colombier le considerevoli spese di coniazione, che bene avrebbero potuto economizzarsi. La Zecca di Napoli non era inferiore a quante ne esistevano allora in Italia: fa di ciò fede la bellezza artistica della antiche monete napolitane.
Senza il concorso, e l’assenso del Parlamento, senza apposita perizia, e senza la solennità de’ pubblici incanti, il Segretario generale di Stato signor commendatore Costantino Nigra si permetteva sotto il di 15 febbraio 1861 alienare a titolo di enfiteusi a pro del francese Eugenio Fabre una cospicua proprietà razionale posta in Napoli, via Ascensione a Chiaja, del valore di lire 260000 circa, per l’annuo canone di sole lire 2464.
Dissi ancora di taluni abusi della Tesoreria napolitana nelle sue relazioni col Banco dei privati, con la Cassa di Ammortizzazione, e colla Cassa di Sconto; fra i quali segnalai quelli, per cui il governo, dando boni del tesoro (secondo che lo stesso Ministro delle finanze avea confessato in occasione del prestito dei 500 milioni ) si avvaleva del denaro dei privati, e di quello destinato a sovvenire il piccolo commercio, violando cosi la santità del deposito dell’uno, ed invertendo la destinazione dell’altro.
Conchiusi cosi:
» Io prego la Camera, di quegli stessi provvedimenti che i quattro mesi or sono chiedeva al governo, e che riduconsi a questi:».
» 1. Che il Minisiero provveda immantinenli alla pubblica sicurezza delle province napolitane, confidandola a persone accette aU’universale, e che sappiano reggerla con seuno, e con fermezza,»
» 2. Che dia pronta esecuzione ai decreti del 6 dicembre 1860, 8 e 23 gennaio 1861, perché quelle province abbiano lavoro e pane».
» 3. Che ristabilisca l'ordine nell’amministrazione della finanza, e dia opera, perché siano cancellati tutt’ i contratti, che sono incostituzionali, ed illegali ad un tempo».
Ma coteste mie interpellanze ebbero infelicissimo successo, come non lieto nelle sue conseguenze era stato quelle dcl mio discorso sullo scioglimento dell'esercito napolitano, e sulla formazione dell’armata nazionale. La maggioranza plaudi alle colpe governative, votando un ordine del giorno, con cui disse che intese le dichiarazioni del Ministero, confidava ch'esso avrebbe proceduto con tutt’i mezzi legali al ristabilimento della pubblica sicurezza nelle province meridionali; e serbando alto silenzio su tutti gli altri addebiti da me fattigli ().
Né di verso contegno serbarono le successive maggioranze, talché quasi tutte le posteriori interpellanze, fondate o infondate che fossero, rimasero prive di effetto.
Proposi ancora parecchi emendamenti al progetto di legge sulla concessione delle ferrovie da Napoli al mare Adriatico, che furono accettati non meno dalla Commissione, che dal Ministero. Con essi io intesi fra l'altro a rendere effettive, ed irriducibili dal magistrato, le penali sotto cui i concessionari dovevano compiere gli obblighi per essi assunti, secondo che può leggersi nella tornata del 4 luglio 1861. Ma pur quegli emendamenti restarono lettera morta:. i concessionari contravvennero in molti modi alla stipolazione; e furono assoluti dalle penali sotto pretesto di oscurità de’ patti.
Vista poscia la mala pruova da me preveduta dell’applicazione alle province meridionali della legge Sarda sulla Guardia Nazionale, proposi, con apposito schema di legge, de’ temperamenti provvisori, diretti a prevenire l'ammissione de’ borbonici, e de’ retrivi ai ranghi dell’arma cittadina. Però la maggioranza, deliberata ad importare nel Napolitano tutte le leggi piemontesi, fossero o no opportune, respinse il mio progetto; e la nostra Guardia Nazionale non fu più quella che aveva tanto ben meritato del paese.
Preoccupato dalle gravi angustie che travagliavano la finanza, io proposi del pari un progetto di legge per la vendita de beni demaniali, e della Beneficenza, a condizioni tali che ne garentivano il valore effettivo, troncavano il corso al giornaliero loro deperimeuto, assicuravano a pubblici stabilimenti una rendita molto maggiore di quella che allora ne ritraevano, sopperivano a bisogni dell’erario, elevavano il credilo nazionale, e tornavano altresì utilissime sotto i rispetti economico-politici.
Cotesto schema di legge, essendo io infermo, fu ampiamente svolto da mio fratello Giuseppe Romano, nella ternata della Camera del 31 dicembre 1862.
Ma la consorteria che costituiva la maggioranza della Camera, sia per odio verso di me, sia perche abbindolata da chi premeditava i carrozzini, e lo sperpero di tale ricca risorsa si oppose alla mia proposta, talché tre soli uffici ne permisero la lettura, e quando si venne a svolgerla, ne contradisse a tutt’uomo la presa in considerazione. Altro ostacolo presentò al mio progetto una controproposta ministeriale cosi rovinosa, che fu respinta dalla stessa docile maggioranza ().
Tornati cosi vani tutti i miei sforzi, mi tacqui; poiché credei vano il parlare quando tutte le maggioranze plaudivano ciecamente agli atti del potere, rinnegando i più ovvi principi e persino la stessa evidenza delle cifre.
Intervenni ciò nonostante, secondo che meglio la mia salute mi permetteva, nelle più importanti discussioni della Camera, e continuai a dare il mio voto contro il fallace indirizzo governativo, tenendomi sempre lontano dalle coalizioni e dalle chiesuole.
Sopravvennero pertanto i fatti, che mi diedero compiuta ragione: i mali da me previsti, e deplorali, crebbero dire misura; le province meridionali da prima, e poi tutta Italie, ne sentirono le conseguenze; il governo fu costretto a riconoscerli, e promise darvi riparo. Ma tardivi, inopportuni, ed insufficienti i rimedi, non giovarono, e ci condussero invece alla presente situazione; che è, di degradanti umiliazioni, dî compiuto sgoverno, di una esausta, e quasi decotta finanza, di tasse sopra tasse, tutte inconsulte, inquisitorie, vessatorie ed ingiuste, di scontento generale e profondo... di molto sangue italiano versato da mani italiane.
E meglio ancora giudicherete di cotesta situazione, cittadini elettori, ove vi piaccia ricordare:
Che il funesto dualismo creato nelle province napolitane dalla Luogotenenza Farini, e ribadito dal general Fanti mercé l'improvvido scioglimento degli eserciti napolitano e meridionale, originò il governo partito che in tutta Italia corruppe tutto, distrusse tutto, senza nulla edificare.
Che rinnegata per esso la nostra ragion di essere, e rinnegati i plebisciti, il governo non ebbe il concorso del paese; nelle province meridionali manco la pubblica sicurezza; la proprietà e le persone rimasero in preda alle grassazioni del brigantaggio, ed agli orrori della legge Pica.
Che dagli stessi errori governativi deriva il vedere oggi tutte le amministrazioni dello Stato, ed in particolare quelle della giustizia, ridondare d’impuri elementi, di gran numero di mediocrità, e d'incapacità, che il solo favore v’introdusse, vi conservò, e spinse a’ primi gradi, cui altra volta pervenivano i nostri sommi uomini dopo lunga ed onorata carriera.
Che si tennero, e tuttavia si tengono occulte al paese le importanti rivelazioni, ch’emergono dagli atti della Commissione della tardiva inchiesta parlamentare sul brigantaggio, da prima contraddetto o dissimulato, e poi mal combattuto.
Che rispondente a cotesto male augurato sistema fu l’indirizzo governativo di tutt’i gabinetti italiani; onde gli stessi onorevoli Boncompagni Rattazzi e d’Azeglio, il riconobbero erroneo co’ loro discorsi alla Camera elettiva ed al Senato nelle tornate del 9 e 16 novembre e 3 dicembre 1864.
Le cose discorse, che potrei bene accrescere di molte altre consimili, vi mostrano, cittadini elettori, per quali cagioni, e per quali uomini, noi siamo umiliati, sgovernati, insanguinati, divisi.
Non pertanto l’Italia si farà, se voi il vorrete. Quale dunque il compito vostro? Duolmi il dirlo, poiché potrà forse sembrare a taluno soverchiamente severo. Ma potrei io tacere dinanzi al cumulo de’ gravissimi mali, che minacciano al paese l’ultima rovina? Il silenzio che dissimula, e lascia incurata la cancrena che spegne la vita nazionale, é colpevole, criminoso, parricida. Vi dirò aperto, e sincero: escludete dall’urna elettorale, escludete, se amate la patria, queste categorie:
1. I consorti, che sono essenzialmente utilitarii, antiunitari, tutti più o meno lordi del sangue italiano, che corse in Pontelandolfo, in Sarnico, in Aspromonte, in Pietrarsa, in Petralia, in Fantina, in Torino, in Faenza, ec., ec.
2. Quei deputati, che per preconcetto sistema, plaudendo agli atti di tutt’i ministeri, han sanzionato il compiuto sgoverno, in cui versa ora l'Italia.
3. Coloro che, infingendosi di appartenere all'opposizione, non hanno sdegnato né i ciondoli, né le prebende, per se medesimi, o pe loro congiunti.
4. Tutti gl’impiegati governativi, nessuno escluso; perciocché, dipendenti dal potere, non possono per l'umana natura aver piena la libertà del voto.
5. Quei deputati cui sventuratamente si è fallo addebito di avere atteso al disbrigo di affari presso i ministeri.
6. I candidali del governo, che sono stati e saran sempre i ciechi istrumenti del potere.
7. Gli stipendiati delle ferrovie, o di altre società sussidiate dallo Stato.
8. Tutti gli utilitari politici, e tutt’i fabbricanti di ordini del giorno per comodo del ministero.
Necessaria conseguenza delle proposte esclusioni è la scella di coloro, che dovete onorare del coscienzioso, e libero vostro suffragio. Chiamate a rappresentanti della Nazione gli uomini intemerati per onestà di tutta la vita — di costanti virtù domestiche e cittadine — di provata fede politica unitaria progressista — che alla dirittura della mente ed al senno pratico uniscano la purezza del cuore. Sia però nelle vostre elezioni prima la probità, poi il sapere.
Cosi facendo, avrete compiuto il debito vostro, e salvata la patria da’ supremi mali che le sovrastano.
Io prendo intanto commiato da voi, cittadini elettori, non senza ripetervi ancora sincerissime grazie de’ suffragi di cui mi onoraste.
Napoli 20 luglio 1865.
L. ROMANO.
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